31 December 2011

Europa Unita: su quali politiche?

Dopo circa due anni di tassi di interesse descrescenti e poi mantenuti costanti ad un livello molto basso (1,00%), la Banca Centrale Europea ha iniziato ad orientare la propria strategia verso una politica monetaria restrittiva. La decisione non può dirsi "sofferta", tenendo conto delle persistenti difficoltà in cui ancora si trovano le finanze pubbliche di alcuni Stati membri. Può definirsi, a ragione, "scontata", perché prima o poi, in assenza di politiche socio/economiche mirare a risanare, da un lato, disavanzi pubblici e rilanciare, dall'altro, un sistema economico entrato in coma profondo, la spinta inflazionistica avebbe manifestato la sua naturale tendenza al rialzo. Non è un mistero che uno dei principali obiettivi perseguiti dalla politica della Banca Centrale Europea è quello di evitare "spirali salariali". E' normale, quindi, domandarsi se l'aumento del tasso ufficiale abbia veramente la capacità e la forza di incidere sulle retribuzioni, anziché su altre variabili come, ad esempio, sui prezzi. Occorrerebbe, conseguentemente, approfondire l'analisi sulle dinamiche che spingono i prezzi al rialzo, che costituiscono la base di calcolo dell'inflazione (e non i salari), perché non sempre l'incremento degli stessi nasce da tensioni rialziste del reddito disponibile. L'aumento dei prezzi spesso è la risultante di altri fattori che non hanno nulla a che vedere con il costo del personale, ma più banalmente dipende da altri elementi: ad esempio i costi energetici (inflazione importata) oppure i costi organizzativo/produttivi (inflazione strutturale). E' necessario ed opportuno valutare se sia corretto che la politica monetaria sia gestita per tutti gli Stati membri da un unico soggetto (la Banca Centrale Europea), mentre altre politiche, le cui decisioni impattano sull'economia (ad esempio, la politica fiscale), continuino ad essere governate autonomamente da ogni Stato appartenente all'Unione Europea. Questo modus operandi se teoricamente potrebbe essere accettato, compreso e condiviso da tutti, non è detto che, nel lungo periodo, non rappresenti il driver di squilibri ancor più gravi di quelli attuali. Il rischio che si prospetta all'orizzonte è quello di un contesto che a fronte di una Europa Unita (sotto il profilo monetario) si contrapponga una Europa disunita (sotto l'aspetto sociale). Verso quale scenario ci stiamo dirigendo?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista del 11 luglio 2011 con il titolo «Va bene l'unione monetaria, ma si lavori sulla coesione sociale»

30 December 2011

Controllo di Gestione: l'impatto della giurisprudenza

Il Controllo di Gestione, al di là delle sterili normative che ne impongono l’istituzione all’interno degli Enti Locali, si manifesta tendenzialmente come un insieme di operazioni e attività di derivazione economico/contabile, piuttosto che di estrazione giuridica. Infatti, nonostante l’autore delle leggi abbia voluto importare dal settore privato una funzione così essenziale al supporto delle decisioni, non ha fornito linee guida di applicazione rigida, lasciando libero il controller di plasmare gli interventi all’interno dell’Ente, in relazione alle peculiarità dell’ambiente in cui si trova ad operare. Sebbene le metodologie di base siano frutto di accurate ricerche già sperimentate nel settore privato, non è certificato che la semplice traslazione del modus operandi all’ambiente pubblico si traduca nei medesimi risultati. «E’ troppo facile per i critici delle prestazioni delle aziende pubbliche saltare alle arbitrarie conclusioni che siano disponibili delle soluzioni già pronte del settore privato». (Les METCALFE & Sue RICHARDS: «Improving public management» - Sage - 1990). Tornando all’argomento che in questa sede è sottoposto ad analisi critica, è interessante osservare come alcune pronunce della Magistratura (contabile e non) hanno un impatto più pregnante sul ruolo del Controllo di Gestione, rispetto alla legislazione originaria che ha lasciato le prime impronte digitali. Accade così che, ad esempio, la Corte dei Conti - Sezione Controllo Regione Sardegna (Parere n° 2 del 18 gennaio 2007) e il TAR Lazio - Sezione III (Sentenza n° 6369 del 13 luglio 2007), hanno deciso, per fattispecie differenti, su argomenti che il controller, se opportunamente investito della questione, avrebbe potuto approfondire ex ante. Infatti, se i competenti Uffici si fossero avvalsi, durante la fase istruttoria, del supporto coadiuvante (e non ingerente) del Controllo di Gestione, sfruttandone la competenza in materia di analisi prospettica, il successivo verificarsi di eventi prevedibili avrebbe impedito l’intervento del giudice. In particolare, nel primo caso mai sarebbe sorto il problema di accertare un debito fuori bilancio, mentre nel secondo caso la Pubblica Amministrazione non sarebbe stata chiamata a risarcire alcun danno alla controparte. In più, se si aggiunge l’onere, espresso in termini temporali, relativo all’adozione di tutti gli atti amministrativi conseguenti alla manifestazione di volontà della Magistratura, si potrà acquisire maggiore consapevolezza che il Controllo di Gestione all’interno dell’Ente Locale può svolgere mansioni assimilabili al problem solver.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice11/Novembre 2011 con il titolo «Controllo di Gestione: l'impatto della giurisprudenza»

29 December 2011

Per non ripartire dal quel 1992

Sono ormai due anni che in Italia non si parla d’altro. La crisi economica è entrata con prepotenza a pieno titolo nel linguaggio comune e, purtroppo, nell’esperienza di vita quotidiana. Una recessione che sembra non concedere tregua, che ha imposto una radicale rivisitazione delle abitudini e degli stili di vita degli Italiani, chiamandoli a sostenere ulteriori sacrifici. Ma questa congiuntura sfavorevole che perseguita l’Italia ha solo due anni di vita o, nell’indifferenza generale, senza rendersene conto, ha già compiuto la maggiore età? Correva, infatti, l’anno 1992 quando le prime avvisaglie sul potenziale default del debito pubblico, inscenarono un attacco alla valuta nazionale, spingendo il governo tecnico di allora ad adottare misure straordinarie per limitarne le conseguenze e scongiurare il peggio. Decisioni drastiche per consentire all’Italia di potersi aggrappare ad una scialuppa di salvataggio, per non perdere il treno dello sviluppo europeo. Svalutazione della lira, tassa patrimoniale sulle giacenze bancarie e privatizzazioni furono, tra le altre, le mosse di maggior significato inserite in una Legge Finanziaria di rigore. Da quel momento, gli Italiani di sacrifici ne hanno fatti veramente tanti, mentre, al contrario, di risultati ne hanno visto tristemente pochi, se non, addirittura, nessuno. E’ difficile, quindi, poter affermare che dopo diciotto anni la situazione della finanza pubblica abbia registrato un sensibile miglioramento. Purtroppo, è vero l’esatto contrario. Quindi, rimane aperto l’interrogativo su che fine abbiano fatto quelle risorse incassate dalle privatizzazioni e destinate, a parole, all’abbattimento del debito pubblico, alla luce del fatto che oggi è più elevato di allora. In questi anni lo scenario ha subito profondi mutamenti. La vendita del patrimonio pubblico non è più in grado di assicurare alla finanza pubblica una boccata di ossigeno. La politica dell’Unione Europea è definitivamente orientata verso forme di aiuti finanziari, per evitare che la situazione in cui versano i conti pubblici di alcuni partner europei diventi sempre più insostenibile. In mancanza di un concreto finanziamento, l’impatto sull’intero sistema economico europeo rischierebbe di aprire le porte ad uno scenario apocalittico. Dopo la Grecia, l’Irlanda. L’elenco non è finito. Seguono a ruota altri venticinque paesi e l’Italia si trova, come gli altri, in coda. I dubbi sull’efficacia di tali interventi rimangono aperti. Se l’aiuto finanziario sarà erogato a pioggia a tutti quegli Stati Membri che ne faranno richiesta, la soluzione sarà ottimale per uscire dal questa crisi economica? Come faranno a ripartire i consumi se le risorse eventualmente risparmiate dalle famiglie sono destinate prioritariamente a rimborsare quei debiti contratti con facilità nel passato? La speranza è che, una volta raschiato il fondo al barile della Banca Centrale Europea, non ci si trovi in una situazione peggiore di quella attuale, con la triste constatazione di dover ricominciare di nuovo da capo! Come nel 1992 e diciotto anni più tardi.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Fare Futuro Web Magazine il 11 dicembre 2010 con il titolo «Per non ripartire dal quel 1992 diciotto anni più tardi»

28 December 2011

Da un'Amministrazione per atti a un'Amministrazione per fatti: implementare il Controllo di Gestione

Implementare il Controllo di Gestione all’interno di un’Amministrazione Pubblica non significa esclusivamente introdurre nuovi strumenti di lavoro, ma anche nuove procedure. Ritenere che l’attività di controllo sia un processo produttivo meccanico/automatico, non solo è riduttivo, ma è uno dei principali errori in cui si ricorre: i compiti del controller non consistono in primitive rilevazioni, classificazioni ed analisi delle informazioni, ma si articolano in operazioni più complesse. Va condivisa l’opinione che l’introduzione del Controllo di Gestione farà concepire l’attività dell’Ente in un’ottica differente e l’approccio alla risoluzione dei problemi sarà affrontato con visioni strategiche e non con la classica miopia. Senza pretendere di definire in modo esaustivo il Controllo di Gestione, si può affermare che consiste in un insieme di strumenti e tecniche in grado di mettere a disposizione della direzione politico/amministrativa le informazioni capaci di far comprendere meglio la realtà e consentire l’adozione di politiche razionali. Il Controllo di Gestione risponde ad esigenze informative interne e non esterne (se non di riflesso) la cui mission è quella di favorire il raggiungimento dei target predefiniti in sede di programmazione, rivelando la sua piena utilità nel momento in cui fornisce linee guida al management. Le informazioni sono utili nel momento in cui consentono di assumere decisioni razionali, anziché istintive, impiegando le risorse con efficacia ed efficienza. L’informazione da produrre deve essere preceduta da un’analisi costi/benefici, ossia, nel momento in cui i benefici derivanti dalla sua disponibilità sono maggiori dei costi sostenuti per produrla. L’obiettivo che deve perseguire il Controllo di Gestione è quello di sviluppare strumenti che consentono attività di monitoring in itinere senza, tuttavia, far perdere di importanza all’analisi storica per due ordini di motivazioni: 
  • il primo, perché molti aspetti dei fenomeni monitorati mantengono nel tempo i loro connotati essenziali; 
  • il secondo, perché anche dove la continuità e la ripetitività di un fenomeno non esiste più o risulti sfumata, le riflessioni sul passato rappresentano uno stimolo alla ricerca di quelle criticità che aiutano a rimettere in discussione e verificare la validità delle scelte effettuate e delle strategie perseguite. 
In sintesi, solo considerando le criticità come fonte di apprendimento si potrà sviluppare quell’esperienza da cui maturare una maggiore competenza. Un primitivo approccio al Controllo di Gestione è quello di predisporre report semplicistici da utilizzare come embrionale punto di partenza per individuare le informazioni di base da esplodere successivamente in input maggiormente dettagliati. L’implementazione del Controllo di Gestione deve viaggiare parallelamente al rinnovamento culturale in quanto il primo svuota di significato e contenuto il secondo. E’ importante rendersi conto che, solo dal confronto e dalla conoscenza reciproca delle principali esperienze, pregi e lacune emergenti ci si può arricchire reciprocamente nella prospettiva del miglioramento continuo. Questo interscambio dovrà avvenire nella consapevolezza che non esiste un paradigma universalmente riconosciuto cui uniformarsi, ma che la configurazione del Controllo di Gestione è quella di un sistema al servizio di esigenze gestionali interne di realtà, con proprie e irripetibili caratteristiche organizzative, decisionali e strumentali. Nonostante le difficoltà che si possono incontrare implementando il Controllo di Gestione, la fonte motivazionale è da ricercarsi nella prospettiva dei non quantificabili benefici che la futura attività è in grado di apportare:
  • all’Ente che decide di inserirlo a pieno titolo nella struttura organizzativa (benefici organizzativo/strutturali);
  • alla comunità sulla quale incide l’attività amministrativa (benefici sociali). 
Il punto di partenza consiste in una provocazione: in altre parole ci si chiede se è veramente possibile realizzare sistemi di Controllo di Gestione nelle Amministrazioni Pubbliche, oppure si tratta di esperienze destinate a rimanere sterili obblighi normativi parzialmente realizzabili, se non addirittura abortite prima del concepimento. Ragionando per assurdo, i primi passi vanno nella direzione di individuare sia le criticità potenziali, sia i fattori critici di successo. Le prime, innescano un’azione frenante all’attività di Controllo di Gestione, mentre i secondi iniettano linfa vitale nelle arterie di un Ente Pubblico il cui colesterolo, espresso in termini di burocrazia, calcifica l’azione amministrativa su procedure spesso inutili e ridondanti. E’ importante convincersi che ogni criticità non deve mai essere elevata al rango di minaccia, in quanto rappresenta al tempo stesso un’opportunità di miglioramento e, di riflesso, un fattore critico di successo. Nonostante i differenti ostacoli cui va incontro l’attività di Controllo di Gestione, la prima barriera da superare è quella culturale. Infatti, ogni essere umano, per sua natura, non si orienta con spirito favorevole al cambiamento che incide sul modus operandi quotidiano, in quanto la novità è percepita come un potenziale pericolo che va ad influenzare quello spazio di movimento, acquisito e costruito con fatica nel tempo. In altre parole, il cambiamento è tradotto come una progressiva perdita di un potere consolidato, che si ritiene non suscettibile di mutamento, sia esso migliorativo o innovativo. E’ necessario, pertanto, investire le prime risorse nella comunicazione interna al fine di far comprendere ai diversi attori, impegnati a recitare la loro parte nello scenario dell’Ente, che il Controllo di Gestione non è finalizzato all’ispezione e alla punizione, ma è uno strumento di guida indirizzato a verificare l’andamento delle attività nell’ottica della ricerca continua del miglioramento. Spesso, negli Enti Locali, quando si chiedono informazioni sulla modalità di gestione di un procedimento amministrativo si ottengono risposte del seguente tenore:
  • «si fa così perché si è sempre fatto così»; 
  • «si fa perché va fatto». 
Scendendo in profondità, analizzando il significato delle affermazioni sopra riportate, emergono due considerazioni: 
  • la prima, consiste nella tristezza della risposta nel suo pieno significato. In altre parole, il contenuto letterale dei termini utilizzati è talmente spontaneo e privo di riflessione che fa presupporre una gestione dei procedimenti amministrativi che si sviluppa senza porsi la domanda circa l’utilità degli stessi; 
  • la seconda, si traduce nella mancata corrispondenza della risposta alla domanda che è stata formulata: chi risponde ignora quello che sta facendo, lo fa perché va fatto, senza domandarsi se quello che sta facendo può essere oggetto di miglioramento.  
Domandarsi «perché?» su ogni comportamento che movimenta la vita amministrativa di un Ente, stimola la fantasia e la creatività del pensiero, indirizzandolo verso la ricerca di alternative che possono contribuire a rendere più snella l’attività lavorativa. La Pubblica Amministrazione, nell’ultimo decennio, si è trovata ad affrontare numerose sfide indotte, nella maggioranza dei casi, non dalla creatività e dalle innovazioni proposte dai singoli protagonisti, ma da imposizioni di origine normativa. La direzione verso la quale deve tendere l’azione amministrativa è quella di superare i modelli organizzativi che individuano nella burocrazia e nel supporto giuridico gli unici criteri per valutare la bontà dell’operato pubblico. I modelli di gestione burocratica, infatti, si reggono sulla servile interpretazione letterale di norme, legittimando l’attività svolta agganciandola a disposizioni recitate in interminabili articoli. Si tralascia volutamente il fatto che disposizioni velate o non espressamente citate sono quelle che consentono di disegnare un percorso giuridico nel labirinto normativo per superare i numerosi vincoli che minano quotidianamente l’azione amministrativa. Solo in questo caso la burocrazia potrà pienamente essere investita delle responsabilità connesse al raggiungimento di risultati apprezzabili. In altre parole, occorre rendersi conto che un’Amministrazione Pubblica esiste perché formata da cittadini e l’obiettivo deve essere quello di soddisfare le esigenze della comunità. Precedentemente al 1990 i controlli esistenti erano esclusivamente incentrati sulla legittimità degli atti e dei comportamenti, gli obiettivi erano considerati raggiunti solo se l’operato dell’Amministrazione Pubblica rispettava il principio della legittimità del procedimento amministrativo e non se gli effetti prodotti miglioravano i servizi offerti alla cittadinanza. Al controllo di legittimità oggi si è affiancato quello: 
  • economico; 
  • interno; 
  • di gestione; 
  • strategico direzionale. 
Con l’approvazione di specifiche norme si è tentato di dare un impulso giuridico al Controllo di Gestione, che non deve trovare giustificazione di esistere solo perché la legge lo impone, ma perché l’operato degli attori pubblici sia improntato a comportamenti gestionali di tipo manageriale, fondati su sistemi di pianificazione, programmazione, controllo dei risultati, senza attribuire al concetto importato dal settore privato, l’obiettivo del conseguimento di un profitto, ma la produzione di risultati concreti, nella piena consapevolezza che gli stessi sono ottenuti con risorse che appartengono alla comunità. Non è sufficiente per ottenere efficienza usare il termine “privato” in sostituzione di “pubblico”, poiché il primo è più efficiente del secondo solo quando ne ha la mentalità, il ruolo e la logica. Le principali criticità che si incontrano in sede di implementazione del Controllo di Gestione sono da ricercarsi:
  • nella struttura organizzativa;
  • nell’impianto contabile;
  • nel sistema informativo. 
Elencazione che non ha la pretesa di essere esaustiva, essendoci all’interno di ogni organizzazione resistenze diverse, ognuna delle quali sicuramente meritevole di approfondita attenzione. Si tratta di criticità che non costituiscono compartimenti stagni in cui si articola l’organizzazione, ma corridoi comunicanti tra loro, in quanto ogni decisione adottata influenza più o meno direttamente il funzionamento degli altri. Ogni criticità rappresenta l’ossigeno che consente al Controllo di Gestione di respirare all’interno di qualsiasi realtà produttiva, sia essa privata o pubblica. Infatti, se un’attività fosse svolta nel rispetto di schemi già perfezionati, non sorgerebbero necessità di miglioramento, né problemi gestionali, quindi, ex post qualsiasi forma di controllo perderebbe significato. E’ invece importante essere consapevoli che solamente attraverso un riesame radicale di quello che è considerato giusto consentirà di superare la “barriera del cambiamento”.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice12/Dicembre 2006 con il titolo «Da un'Amministrazione per atti a un'Amministrazione per fatti: implementare il Controllo di Gestione»

27 December 2011

Manovra economica e sacrifici: per chi?

Si sprecano, in questi giorni, i richiami all'unità per uscire dalla crisi economica che stringe in un abbraccio soffocante il Paese. Ciò che non è sufficientemente chiaro, però, è se il richiamo è indirizzato a tutti i Cittadini indistintamente, solo una parte di essi (quelli con un reddito elevato) oppure limitato esclusivamente alla classe politica. L'appello, nei primi due casi, è fuori luogo perché i Cittadini, chi più o chi meno, nel bene o nel male, hanno sempre dimostrato di essere uniti nel momento del bisogno, non sottraendosi ai loro obblighi civici e tirandosi su le maniche ogni volta che si è manifestata la necessità di sacrificare il personale interesse di fronte a quello generale. Nel terzo caso, invece, non è sostenibile la medesima conclusione, perché le liti, i pettegolezzi, le ripicche e gli sprechi di denaro pubblico sono all'ordine del giorno e tristemente sotto gli occhi di tutti. Pertanto, se la congiuntura economica generale e le finanze pubbliche sono così disastrate non si può certo attribuirne la responsabilità ai Cittadini, ma la stessa è da imputare in maniera univoca all'incapacità dell'apparato politico, qualunque sia il colore, di trovare soluzioni eque e, soprattutto, idonee per uscire dall'impasse e migliorare lo status quo. Conseguentemente, non si riesce a comprendere per quale motivo i danni prodotti da questi comportamenti debbano essere addebitati ai contribuenti sotto forma di maggiore tassazione oppure tagli indiscriminati ai vari servizi pubblici e sociali. Non è forse giunta l'ora di agire su altre componenti della spesa, con particolare attenzione a quella improduttiva? Non è forse maggiormente credibile, prima di colpire i Cittadini, abbattere la scure sulle spese per consulenze ed incarichi, la cui utilità è spesso costruita artificialmente intorno alla persona che ne trae beneficio, piuttosto che a concreti e reali bisogni della collettività? E' proprio da qui che sarebbe opportuno iniziare per evitare ancora una volta che i sacrifici da fare non si traducano in un nulla di fatto. Ogni altra proposta ha il rischio di essere sterile demagogia.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista del 13 luglio 2011 con il titolo «Manovra economica e sacrifici: per chi?»

26 December 2011

Quando il personale pubblico lavora nell'interesse dell'Ente

Non si tragga in errore il lettore dall’effetto visivo generato dalla combinazione di parole dalle quali scaturisce il titolo dell’articolo, ma l’incoerenza è stata appositamente voluta e studiata per suscitare nella sensibilità umana quello shock intellettuale dal quale successivamente si spera possa svilupparsi uno spirito costruttivo di approccio ai problemi della Pubblica Amministrazione. Ad alcuni sicuramente verrebbe però da domandarsi il perché dell’utilizzo della parola “incoerenza”. Non è forse vero che il personale pubblico, inteso nel senso più ampio del termine (amministratori, dirigenti, dipendenti), svolge la propria attività lavorativa nell’esclusivo interesse dell’Ente? Il gioco di parole adottato che, come si è detto sopra, è stato ricercato con consapevolezza avrebbe preferito, al termine dell’affermazione, l’apposizione di un segno distintivo che la letteratura anglosassone identifica nel question mark, ma la punteggiatura mancante avrebbe esclusivamente portato ad elaborare una risposta, mentre, nella realtà, esistono ancora molte domande da porsi prima di giungere ad una soluzione. Ma in cosa consiste l’interesse dell’Ente? Una domanda alla quale, chiedendo anticipatamente perdono per la ripetizione poco sonante, si può rispondere univocamente con “risposte”, che non devono tradursi in articolate elucubrazioni verbali di lana caprina con le quali si giustifica il sesso degli angeli, ma in output, che, nonostante assumano la veste immateriale, possano definirsi tangibili e concreti. Non a caso, credo che con tutta serenità non sia oggetto di scomunica definire “ingrato” il compito di formulare alcune considerazioni in merito, soprattutto quando si inseriscono nei rapporti complessi che esistono tra l’Ente Pubblico ed il Cittadino, dove la locuzione complessità è solo adeguata a quei meccanismi burocratici che infettano la mentalità del personale pubblico ancor prima che un agire razionale consenta di pervenire alla risoluzione del problema. Anche l’espressione verbale “ingrato” è stata intenzionalmente scelta, in quanto, da un lato, non sempre risulta facile affrontare argomentazioni che incidono sulla realtà operativa di una Pubblica Amministrazione e, dall’altro, non è semplice utilizzare nell’esposizione una terminologia comprensibile, capace di catturare quell’attenzione che può aiutare a far condividere insieme alcuni aspetti, peraltro non sempre positivi, sui rapporti esistenti tra il potere pubblico e coloro nei confronti dei quali dovrebbe essere esercitato per l’erogazione di servizi. Non è un caso fortuito se, nel tempo, il Cittadino si disaffeziona dall’Amministrazione Pubblica, allontanandosi contestualmente dai problemi che affliggono la comunità locale. Questo atteggiamento passivo, che rifugge il problema alla radice, è la risultante di un percorso gestionale progettato ad hoc per far sì che l’Ente Pubblico sia percepito come una scatola chiusa, dove al suo interno si decide di tutto ad eccezione di quella che, nella realtà, era la missione reclamata dagli Amministratori in sede di consultazione elettorale. Le colpe di questo sistema non devono, tuttavia, essere cercate nei comportamenti dei Governi nazionali, di qualunque colore si siano dipinti, ma direttamente in coloro che, a livello locale, sono stati chiamati a gestire la cosiddetta “macchina pubblica”. Infatti, a partire dai primi anni novanta (e questo è il dato più triste alla resa dei conti) il Legislatore nazionale è andato nel tempo partorendo una disciplina più o meno organica di provvedimenti mirati a rendere più snella l’attività della Pubblica Amministrazione, cercando di abolire tutta una serie di procedure ridondanti e obsolete che, nella burocrazia, trovavano (e purtroppo ancora oggi è così) quella preziosa linfa vitale che consentiva di celare, dietro una gestione disorganizzata, l’incapacità di adottare atti amministrativi idonei a soddisfare le esigenze della collettività. I Cittadini, anziché essere considerati come portatori di interesse, sono individuati come generatori di problemi e, conseguentemente, meno si avvicinano al Palazzo Comunale (che costituisce la Pubblica Amministrazione per eccellenza, essendo capillarmente presente ovunque), meglio è per il quieto vivere e il proliferare di attività svolte e assolutamente improduttive di benefici tangibili per loro. Oggi si vive in realtà locali dove chiunque abbia voglia, ma soprattutto pazienza, di perdere un po’ del suo prezioso tempo libero e decida di varcare il portone del proprio Comune si troverà immerso in un ambiente talmente asfittico che lo priverà di quell’ossigeno necessario per individuare la persona giusta alla quale rivolgersi per ottenere indicazioni e suggerimenti utili ad individuare con tempestività e precisione l’Ufficio competente a risolvere il problema. L’Utente si ritroverà come se fosse all’interno di un museo privo di una cartina che illustra il giusto percorso nel labirintico andirivieni di corridoi, stanze e persone. Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che le leggi emanate nella direzione di ridurre le distanze tra Pubblica Amministrazione e Cittadino sono operative da oltre dieci anni e che il ritardo della loro piena applicazione non dipende dalla incomprensibile terminologia giuridica utilizzata nell’esporre il dettato normativo, ma nella mancanza di volontà di adeguare il proprio modus operandi, facilitando la comprensione che il lavoro svolto all’interno degli Enti Pubblici avviene tenendo sempre in primo piano l’interesse collettivo. Il panorama di oggi è profondamente cambiato rispetto ai decenni scorsi ed il livello culturale del Cittadino è elevato al punto che, per fortuna, non ripone più alcuna fiducia nei racconti del personaggio di turno che si materializza in quello creato da Carlo LORENZINI, in arte Collodi. Nonostante ciò, se si sente recitare gli attori principali, sembrerebbe che lavorare nell’interesse dell’Ente sia alquanto difficile, per non dire pieno di ostacoli:
  • le innovazioni sono istantanee e, conseguentemente, l’adeguamento richiede tempo;
  • la normativa di riferimento si evolve e, quindi, occorre adeguare le procedure;
  • gli scenari cambiano ripetutamente e ciò richiede forzatamente la definizione di nuovi “punti nave”.
Peccato che il regista del teatro organizzativo, a fronte di questi continui mutamenti ambientali, si dimentichi di ricordare ai protagonisti che il copione è sempre identico: l’obiettivo finale è la soddisfazione dei bisogni della collettività. Cosa spinge allora a considerare l’interesse dell’Ente una cosa così astratta e priva di sostanza tale da richiedere la produzione di tanta documentazione, che si manifesta attraverso risme di carta, proliferazione di faldoni e attività ripetitive, se non inutili, frutto di decisioni non coerenti con le strategie da perseguire? Esistono procedure appartenenti alla famiglia della lean thinking, che, se applicate, produrrebbero risultati talmente all’avanguardia da consentire un’azione amministrativa capace di instaurare un circolo virtuoso, che farebbe ridurre il time to market, ossia il tempo necessario per la soddisfazione dei bisogni della cittadinanza, dal preciso istante in cui si sono manifestati a quello in cui viene comunicato il risultato finale. Anche la comunicazione riveste un ruolo di primo piano all’interno dell’Organizzazione Pubblica, che si impernia prioritariamente sulla comprensione dei problemi e non sulla loro soluzione, anche se è abbastanza evidente che la corretta individuazione del problema avvicina quella della sua soluzione. Il personale pubblico, dagli amministratori ai dipendenti passando, soprattutto, per i dirigenti, ritiene che il possesso delle informazioni a disposizione sia ancora un segreto da non divulgare a nessuno sia in un’ottica bottom up, sia, a maggior ragione, top down. In pratica, si rifiuta di prendere in considerazione il beneficio che la comunicazione con il Cittadino porta alla rimozione di quell’ostacolo che nella diffidenza trova il peggior nemico del rapporto di fiducia che altrimenti si verrebbe a realizzare. La soluzione di gran parte dei problemi della Pubblica Amministrazione trova le sue fondamenta in un semplice fattore di mappatura e successiva riorganizzazione delle attività, ma questo non impedisce l’instaurarsi, nella illuminata vision prospettica del personale pubblico, di meccanismi perversi tali da far percepire che i processi di reengineering siano una minaccia anziché un’opportunità. La loro filosofia di pensiero, ma anche il modo di intendere la res publica, è rimasta ancorata a schemi manageriali di derivazione preistorica, isolati dall’ambiente esterno circostante, generando quel timore che la semplificazione dei processi potrebbe far perdere potere all’interno dell’organizzazione e far percepire, conseguentemente, al beneficiario una sensazione di aver a che fare con un soggetto diverso da quello al quale si era inizialmente rivolto. L’innovazione è bandita in quanto occorre eseguire i compiti nel preciso rispetto di regole prive di logica, di compilazione di moduli inutili e produzione di paginate di relazioni che nessuno leggerà. L’importante è continuare a credere che “se non c’è controllo, allora deve esserci il controllo”, per poi meravigliarsi della paralizzante inefficienza che non consente il perseguimento degli interessi dell’Ente, ma consente, però, di raggiungere altri obiettivi. E’ necessario che nel contesto attuale caratterizzato da innovazione istantanea e globalizzazione la guida dell’Ente sia affidata a persone capaci di separare la vita professionale da quella privata, che siano fortemente propensi al change management e siano dotati di elasticità mentale senza per questo dimenticare il percorso di avvicinamento agli interessi della comunità. In caso contrario, la resistenza al cambiamento, l’ottusità mentale, il pedissequo rispetto di regole gestionali arcaiche faranno avanzare la Pubblica Amministrazione lentamente, come una nave in mezzo all’oceano, lungo una rotta disegnata da comportamenti improvvisati sordi alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente interno. Lungo questa direzione, ci si accorgerà ben presto che continuando a tracciare “punti nave”, anziché aver raggiunto lo stato desiderato, ovvero l’obiettivo finale, l’imbarcazione si sarà arenata in un nulla di fatto o, peggio ancora, si sarà incagliata tra gli scogli e che al Cittadino, rimasto insoddisfatto, non rimarrà altro da dire che ci vuole tempo per risolvere i suoi problemi perché le scialuppe di salvataggio (leggasi “le risorse umane migliori”) hanno già da tempo abbandonato la nave. 
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice3/Marzo 2007 con il titolo «Quando il personale pubblico lavora nell'interesse dell'Ente»

25 December 2011

Debito sovrano: quale scenario si prospetta?

Recentemente l'Agenzia di valutazione Moody's ha iniziato a mettere il naso dentro la situazione economica italiana, richiamata da circostanze preoccupanti, se non proprio allarmanti. Un contesto che non rassicura né gli investitori internazionali, né quelli domestici. Uno scenario economico/sociale che, con il passare del tempo, è sempre più caratterizzato da una prospettiva incerta, con aspettative ribassiste. Al centro di questi ingredienti si inserisce un contorno politico instabile, che non riesce a dare un'impronta riformista mirata al perseguimento di un interesse collettivo. La ventilata ipotesi di un downgrade per alcune delle maggiori aziende private è sintomatico che ciò che è mera ipotesi di studio, presto si trasformerà in una diagnosi il cui esito assumerà connotati di certezza. Un warning ora annunciato, ma da tempo atteso. La notizia, è inutile nasconderlo, deve indurre ad alcune riflessioni sugli esisti di una politica economica che, se da un lato, ha mantenuto elevata l'attenzione a salvaguardia del debito sovrano, dall'altro, ha ingessato ogni timido tentativo di sviluppo industriale. L'attenta analisi delle motivazioni che hanno spinto Moody's a mettere sotto osservazione alcune imprese private ed istituzioni pubbliche dovrebbe far meditare su quale sarà, al termine della quarantena, il giudizio finale: ossia, l'abbassamento del rating sul debito pubblico. Infatti, se la disamina è limitata a quelle strutture produttive che oggi hanno un coefficiente di affidabilità superiore a quello attribuito allo stock di debito sovrano, è abbastanza scontato che un loro abbassamento implicherà, automaticamente, una rivisitazione di quello che dovrà affiancare i titoli del debito nazionale. L'Agenzia americana ha poi messo sotto stretta sorveglianza anche la situazione debitoria di una ventina di Enti Pubblici (Regioni, Province e Comuni), in altre parole di quelle istituzioni in cui si ramifica l'ordinamento dello Stato a livello territoriale. Sicuramente, l'avvertimento rimarrà inascoltato, scaricando con la tipica usanza nostrana la risoluzione dei problemi sul futuro e contribuendo ad anticiparne gli effetti devastanti. Già nel novembre 2008 veniva ipotizzato che la prossima crisi finanziaria sarebbe partita dagli Enti Locali. Oggi siamo ancora in tempo per porvi rimedio?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista del 06 luglio 2011 con il titolo «Preoccupa il futuro del debito sovrano» 

24 December 2011

Burocrazia: male incurabile?

Negli ultimi giorni, i mass media hanno finalmente portato alla ribalta lo scenario ancestrale in cui opera la Pubblica Amministrazione, illuminando i meccanismi di funzionamento burocratico, dai quali scaturiscono le decisioni. In particolare, la carta stampata ha iniziato a rendere pubbliche situazioni paradossali, che evidenziano, con tutta la loro forza, come la gestione della “cosa pubblica” sia frutto di una cultura amministrativa ancorata a stereotipi mentali di origine preistorica e tramandati nel tempo nel rispetto del principio che «si è sempre fatto così e bisogna continuare a farlo». Questa “miopia strategica”, che qualifica ancora oggi la maggior parte degli Amministratori, è la principale causa del malfunzionamento degli Enti Pubblici. In un contesto, come quello attuale, caratterizzato da continue e profonde trasformazioni, non è più accettabile che individui poco propensi al cambiamento abbiano la possibilità di adottare decisioni, facendo perno su strumenti obsoleti, inadatti a soddisfare le attuali esigenze. Ad oggi, gli unici risultati partoriti sono stati quelli di aver costretto i Cittadini a privarsi di risorse per finanziare perpetuamente una macchina burocratica improduttiva di servizi per loro. Focalizzando l’attenzione sulle conseguenze che il comportamento della Pubblica Amministrazione ha prodotto in questi anni, è razionale porsi, almeno, l’interrogativo sul sistema premiante dei manager pubblici: da un lato risulta che gli obiettivi sono stati raggiunti e, dall’altro, i problemi sono sempre da risolvere. L’ottusità mentale che regna all’interno dell’Organizzazione Pubblica impedisce di sfruttare avanzate tecniche di gestione per indirizzare le decisioni verso la produzione di un benessere collettivo permeato da servizi efficaci ed efficienti. Forse, è arrivato il momento di lasciare ampio spazio ad altri soggetti capaci di percepire in anticipo i problemi per individuare soluzioni ottimali foriere di benefici per i Cittadini e l’Amministrazione che li rappresenta. Si tratta delle vere risorse umane il cui onere non si configura come “costo del personale”, ma come “rendimento del capitale intellettuale”. Se l’intenzione è, invece, quella di andare avanti così, sfruttando le opportunità offerte da una cultura mentale antiquata e burocratica, allora non è necessario sforzarsi più di tanto per individuare la terapia più appropriata per curare il problema perché, come afferma in un suo scritto ANDROS: «La burocrazia è un tumore a un cervello che non c’è» («Un libro per riflettere» - Albalibri Editore, 2006). 
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Secolo XIX del 02 febbraio 2008 con il titolo «Come si può battere la piaga della burocrazia»

23 December 2011

Oltre l'economia

Inizia oggi una nuova avventura. Un'esperienza che, come recita il titolo della rubrica, si propone l'ambiziosa finalità di accompagnare il lettore oltre i confini dell'economia. Un compito impegnativo, per cercare di coinvolgerlo nei ragionamenti sviluppati e, al tempo stesso, stimolarlo ad operare una profonda riflessione sul contenuto delle materie approfondite. Infatti, gli argomenti non approfondiranno soltanto l'alveo della scienza economica, ma andranno anche a sconfinare nei meandri di quelle attività che caratterizzano la società civile. Queste ultime, oggi più che mai, hanno ripercussioni e, contemporanemente, si riverberano nel contesto della situazione economica del Paese e delle sue componenti, siano esse Istituzioni o singoli Cittadini. L'economia, al pari di tutte le scienze sociali, elabora considerazioni e costruisce modelli, il cui impatto incide e plasma il comportamento individuale dal quale percepisce, a sua volta, importanti segnali e stimoli che consentono di verificare se ciò che è stato teorizzato ha prodotto gli effetti sperati oppure se i risultati raggiunti si sono orientati verso un'altra direzione. Questa è la principale incognita dell'economia e, nel contempo, l'aspetto affascinante di una materia che deve continuamente mettere in discussione non solo le variabili prese in considerazione, ma anche la loro combinazione in contesti che, rispetto al passato, non sono più statici, ma in perenne evoluzione. E così, quei confini che un modello economico aveva contribuito faticosamente a tracciare devono, oggi, essere ridisegnati alla luce dei mutamenti degli stili di vita, costituiti da fatti e comportamenti non sempre prevedibili e razionali, che hanno fatto perdere progressivamente significato alla consapevolezza di aver individuato, una volta per tutte, la formula magica per risolvere ogni questione. L'esempio, rappresentato dalla crisi economica, è evidente e, come ha ribadito Gianfranco FINI nel libro "L'Italia che vorrei", «ha costretto tutti, a cominciare dagli economisti più accreditati, a compiere uno sforzo di analisi e di approfondimento, rimettendo in discussione paradigmi e chiavi di lettura che, fino a poco tempo fa, sembravano ampiamente consolidate». Paul VALERY, oltre mezzo secolo fa, ha sostenuto che «il guaio dei nostri tempi è che il futuro non è più come quello di una volta». Pertanto, la sfida che ci attende è quella di far sì che il futuro sia almeno migliore del passato, dove gli errori commessi possano aiutare a riflettere, non solo per evitarne la ripetizione, ma anche per imparare a comprendere le ragioni che stanno alla base delle convinzioni degli altri. In alternativa, si dovrà accettare di correre il rischio di precludere ogni possibilità di crescita culturale, facendo proprio il pensiero di Rabindranath TAGORE: «Se si chiude la porta a tutti gli errori, anche la verità resterà fuori».
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Nuovo Picchio3/Dicembre 2011 con il titolo «Oltre l'economia»