21 December 2013

TARES/TARSU: dov'è l'errore?

Con l'approssimarsi del Natale non è arrivata la neve, ma l'ultima rata da pagare della TARES. Lo ha fatto in sordina, minacciando di lasciare in bianco le agognate festività di fine anno ed i sogni di migliaia di Cittadini. Il botto ha fatto immediatamente seguito, anche se non è stato quello della mezzanotte di San Silvestro a salutare la nascita del 2014. Dopo un anno trascorso ad assistere alle più o meno feroci polemiche politiche su come accomodare meglio le natiche sulle poltrone e accavallare le gambe sotto il tavolo, i Cittadini hanno dignitosamente espresso la loro contrarietà a dover essere sempre chiamati a pagare il conto, senza mai partecipare al pertinente banchetto. E così, stufi di sopportare un carico fiscale improntato sulla propaganda che "tassare è di moda", i Contribuenti sono riusciti a mettere all'angolo gli Amministratori locali, facendone emergere una imbarazzante inadeguatezza a risolvere i problemi della comunità di riferimento con lo sguardo rivolto alle esigenze dei Cittadini, non altrove. Di fronte alla protesta, hanno iniziato a venire a galla le cosiddette "verità nascoste" di un sistema legislativo, tributario, amministrativo e organizzativo, plasmato ad hoc per ribaltare sui Cittadini l'onere di una situazione che sta speditamente dirigendosi verso un collasso generalizzato. Pare, ed il condizionale è d'obbligo in mezzo a certi cavilli, che si sia aperto uno spiraglio per una riesumazione della vecchia tassa, ossia TARSU anziché TARES. Un differente acronimo per segnalare che la sostanza è simile, ma profondamente diversa, specie per ciò che concerne gli importi recapitati ai Cittadini. Sembra, infatti, assurdo che un ritorno al passato possa essere adottato solo ed esclusivamente da quelle Amministrazioni locali che, in perfetto stile "Made in Italy", non hanno ancora approvato il Bilancio di Previsione per l'anno in corso (considerando il fatto che siamo appunto alla fine dell'esercizio finanziario cui lo stesso bilancio dovrebbe riferirsi). Una beffa mirata a sancire definitivamente che il merito alberga da un'altra parte e non appartiene a quelle Amministrazioni che la prassi spesso definisce impropriamente "virtuose", avendo voluto dimostrare la loro efficienza tecnica ed operativa. Ma i fatti non lasciano alcuno scampo, mentre le storie raccontate fino ad oggi e sbandierate a suon di proclami paiono senza evidenza. Se da un lato un'Amministrazione locale avrebbe potuto adoperarsi in direzione di una differente modulazione tariffaria, riformulando adeguatamente i meccanismi di calcolo e imputazione degli oneri da coprire, evitando mirabolanti "artifizi contabili", tali da far rivoltare nella tomba i padri costituenti della contabilità, dall'altro avrebbe ugualmente potuto sfruttare la sessione dedicata all'assestamento del bilancio per migliorare la TARES, riportandola lungo le parallele di equità disegnate dalla TARSU. Ma questo non è stato fatto, facendo sorgere il legittimo sospetto di domandarsi: «Perché?». A conti fatti, l'opportunità offerta da una torta con l'ingrediente TARES era troppo ghiotta. Avrebbe potuto consentire di liberare risorse aggiuntive (oltre a quelle messe a disposizione da un'applicazione, non obbligatoria, della "addizionale IRPEF") per finanziare ciò che eventualmente, nel corso del mandato, non era stato fatto. A maggior ragione, se tutto ciò si analizza nella prospettiva che la luce in fondo al tunnel è rappresentata dall'avvicinarsi di una competizione elettorale, allora sì che il bilancio potrebbe veramente quadrare. Quindi, è alquanto triste dover appurare e, a malavoglia, prendere atto che, una volta servita la frittata su un piatto d'argento, ci si è resi conto che l'altra faccia era palesemente bruciata. Ecco perché, nello sforzo di trovare un alibi, un'Amministrazione in carica potrebbe decidere di ascoltare le sollecitazione provenienti dai Cittadini, dopo che, nel corso dell'anno, le altre forze politiche si erano prodigate con tutte le salse a loro disposizione per far comprendere che ciò che stava bollendo in pentola avrebbe potuto rivelarsi una medicina molto amara per i Cittadini. Ma ormai il pranzo è servito! La recita di un'eventuale "mea culpa" sia pubblicamente, sia a mezzo stampa, si potrebbe configurare agli occhi dei Contribuenti come esercitata a tempo ormai scaduto. Meriterebbe, quindi, di essere rispedita al mittente perché, se da un lato, si può chiamare in causa il principio ispiratore della "diligenza del buon padre di famiglia" nel programmare le finanze per l'anno futuro, dall'altro, si rischia di tralasciare volutamente le grida di allarme provenienti dal tessuto economico e sociale della Comunità amministrata. In altre parole, sarebbe come reclamare di volersi atteggiare a buon padre di famiglia senza, però, avere né moglie, né figli. E così, anziché modificare la rotta di una compagine che si sta dirigendo, con le sue forze, verso gli scogli, si sta tentando inutilmente di porvi un improvvisato rimedio, organizzando una manovra disperata affidata ad un "inchino" di scuse, dimenticandosi che la nave si è ormai incagliata ed è prossima ad affondare, con la conseguenza che nessuno potrà restituire ciò che è stato sottratto a coloro che con enormi sacrifici hanno sopportato questo superficiale disinteresse nei loro confronti. Le sorti restano, quindi, appese all'ultima speranza, così come la calza rimane agganciata al camino in attesa che i doni della Befana possano addolcire il nuovo anno e la fine delle festività. La parola, poi, sarà affidata alla giuria dei Cittadini che finalmente avranno la possibilità di sentenziare se assolvere un'Amministrazione in carica per "mancanza di TARSU" oppure condannarla senza appello in occasione della prossima consultazione elettorale. Ad oggi, non resta che aspettare gli auguri alla Cittadinanza, senza però meravigliarsi se l'Amministrazione commetterà un lapsus freudiano auspicando: «Buon NaTARES a tutti!».
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 21 dicembre 2013 con il titolo «TARES/TARSU: dov'è l'errore?»

8 December 2013

La caduta dei ... "gitanti"

Il trascorrere del tempo è un processo lungo, lento e, soprattutto, silenzioso. Questo comporta che quando il conto alla rovescia sta per esaurire il proprio ticchettio, improvvisamente ci si risveglia dal letargo per adoperarsi di buona lena a cercare di realizzare non solo l’incompiuto, ma anche l’impensabile. Ma la storia insegna che la fretta è sempre stata una cattiva consigliera. Capita, quindi, di ascoltare o di leggere fino alla nausea sterili, quanto banali, scuse volte a giustificare quei comportamenti adottati nell’esercizio del potere ed improntati al laissez faire, per poter poi scaricare le colpe su altre circostanze che non lascerebbero tempo sufficiente per esaurire le promesse decantate durante la competizione elettorale. Ad ogni piè sospinto, si cede con leggerezza alla tentazione di rilasciare interviste ai cosiddetti “organi del partito”, probabilmente dopo averle artificiosamente architettate e costruite a priori. La finalità, ovviamente, è quella di poter essere onnipresente nell’esprimere il proprio pensiero ed ergersi, agli occhi del Cittadino, a paladino della difesa dei loro interessi. Se da un lato c’è chi elogia il meccanismo elettorale vigente per i Comuni, in quanto sembra essere l’unico capace di garantire la stabilità di un Governo, consentendogli di portare a termine il programma elettorale senza intoppi, dall’altro c’è chi lo critica pubblicamente, imputando ad una durata limitata la responsabilità del mancato raggiungimento degli obiettivi, ma tralasciando il particolare di aver riposato sugli allori per i primi quattro quinti del mandato. L’abilità di entrambi i sostenitori è quella di imbonire il lettore chiamando in causa solo i potenziali effetti benefici della loro opinione, dimenticandosi di enunciare quelli che possono impattare negativamente sulla convivenza civile. Ma come dice un detto popolare: “Non si può condannare un uomo per quello che pensa. Si può solo sperare, per il bene di tutti, che non ci pensi più”. E intanto, tra un’apparizione in pubblico e la successiva, tra un’intervista e l’altra, il tempo continua inesorabilmente a passare, calcificando nella mente dell’elettore la dimensione di quello che viene perso per cercare di rispolverare l’immagine in vista della foto ricordo da utilizzare per il prossimo “santino”. Ma il popolo non è così somaro come si vorrebbe sostenere. Infatti, mentre il tempo a disposizione si accorcia in vista della prossima campagna elettorale, la memoria del Cittadino si allunga sempre di più. E l’elenco di ciò che è stato promesso e non mantenuto costituisce la cartina al tornasole che consentirà al Paese di voltare pagina, provocando la sconfitta di coloro che hanno sempre pensato di poter governare con lo scettro dell’onnipotenza. Il politico che non è stato in grado di mantenere gli impegni presi con la propria comunità alla fine risulterà essere stato solo di passaggio, così come il turista che, visitando una località poco attraente, passa e se ne va. E sarà come assistere alla caduta dei giganti o, nel senso in cui lo si vorrà intendere, dei … “gitanti”.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 07 dicembre 2013 con il titolo «La caduta dei ... "gitanti"»

4 December 2013

Il diritto di accesso al sistema contabile

Quale mistero può avvolgere la formazione del Bilancio di Previsione di un Ente Locale? Una domanda banale, alla quale gli addetti ai lavori potrebbero incontrare difficoltà nel formulare una risposta appropriata. Infatti, i principi contabili parlano chiaro: la norma individua, tra i postulati, anche quello della pubblicità. Quindi, al bilancio dovrebbe essere garantita la massima trasparenza informativa all’interno e, soprattutto, verso l’esterno. I più astuti potranno avocare a sé l’esclusiva capacità di saper leggere, interpretare e combinare tra loro i numeri, per far opportunamente quadrare i conti e fornire, allo sprovveduto di turno, la risposta che più fa comodo. Ad altri, invece, questa facoltà è censurata con tutti gli strumenti a disposizione, senza fornire al malcapitato alcuna motivazione convincente, manifestando indirettamente un comportamento di “mala fede”. Nella realtà, quindi, si potrebbe verificare l’ipotesi che un Consigliere comunale o provinciale (di opposizione o di maggioranza), particolarmente attento alla procedura da adottare per creare l’impalcatura che sostiene il documento previsionale, faccia richiesta all’Ente Locale di appartenenza di poter disporre di un terminale e di conoscere la password di accesso al sistema contabile, al fine di verificare e controllare le relative scritture. L’Amministrazione Pubblica, di fronte ad un simile interrogativo, può avere il dubbio legittimo se configurare la richiesta come rientrante nel più ampio scenario del diritto di accesso, oppure restringere abusivamente il cerchio per formulare argomentazioni dilatorie e inconcludenti finalizzate all’espressione di un parere negativo all’istanza. In altre parole, esiste un confine tra il “diritto di accesso” e il “diritto di informazione” oppure si tratta di due facce della stessa medaglia? Sull’argomento, l’articolo 43 - comma 2 - del Decreto Legislativo n° 267/2000 «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» specifica in modo chiaro ed inequivocabile che i Consiglieri hanno il «diritto di ottenere dagli uffici … (omissis) … tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato». La norma, non ponendo alcuna pregiudiziale, riconosce al Consigliere un diritto più ampio rispetto a quello di accesso alla documentazione amministrativa che il legislatore riserva al singolo Cittadino. Tale diritto, privo di alcuna frontiera, segue l’attività del Consigliere in virtù del particolare status riconosciutogli dalla legge, che gli consente di poter valutare, senza alcuna remora, la correttezza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri è intervenuta sull’argomento, precisando che l’istanza di accesso al sistema informatico che un Consigliere presenta all’Amministrazione Pubblica di appartenenza non deve contenere una motivazione, perché in tal caso l’Ente Locale «si ergerebbe paradossalmente ad “arbitro” … (omissis) … delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche proprie dell’organo deputato all’individuazione ed al miglior perseguimento dei fini della collettività civica». Alla luce di ciò, gli Uffici dell’Ente Locale non dispongono di alcun potere per sindacare la correlazione esistente tra l’oggetto della richiesta di informazioni e la modalità di esercizio del mandato. Infatti, sul tema ha già avuto modo di intervenire il Consiglio di Stato - Sezione V - con la Sentenza n° 929/2007Nella decisione dei giudici di Palazzo Spada si sostiene, tra l’altro, che «il diritto di accesso non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica, perché ne risulterebbe ostacolato l’esercizio del mandato istituzionale». Nel dettaglio, già in altre occasioni la giurisprudenza amministrativa ha sottolineato che il diritto di accesso esercitato da un Consigliere presenta una caratteristica del tutto peculiare, in quanto attinente l’esercizio di un diritto soggettivo pubblico finalizzato «al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate» (Consiglio di Stato - Sezione V - Sentenza n° 4471/2005). Nello specifico, i giudici confermano che «ogni limitazione all’esercizio del diritto … (omissis) … interferisce inevitabilmente con la potestà istituzionale del Consiglio comunale di sindacare la gestione dell’ente, onde assicurarne - in uno con la trasparenza e la piena democraticità - anche il buon andamento». Sulla base delle diverse pronunce giurisprudenziali, con particolare invito a non abusare del diritto all’informazione riconosciuto al Consigliere dall’ordinamento, nel’ottica di non pregiudicare la corretta funzionalità amministrativa dell’Ente Locale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri stabilisce che il ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema informativo dell’Ente Locale, rappresentano strumenti di accesso consentiti, in quanto agevolano l’acquisizione delle informazioni in maniera tempestiva, evitando di aggravare l’ordinaria attività posta in essere dagli Uffici. Qualora la struttura burocratica insista nella sua reticenza, frapponendo ostacoli a questa particolare forma di accesso agli atti, si potrebbe aprire lo scenario di un eventuale annullamento del Bilancio di Previsione da parte del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) competente per territorio per violazione di un diritto fondamentale che la legge riconosce ad un Consigliere.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 4/Aprile 2009 con il titolo «Il diritto di accesso al sistema contabile»

26 November 2013

La responsabilità contabile del dipendente incaricato della gestione dei buoni pasto

Con il presente articolo, senza porsi la finalità di essere esaustivo, ma nella speranza, invece, di far nascere nel lettore un sentimento di analisi critica della fattispecie in esame, si intende contribuire a fornire un’ipotetica soluzione, attraverso alcune valutazioni tecniche, di un delicato argomento in materia di responsabilità contabile. Nella sostanza, si vuole approfondire un argomento di crescente attualità, che, se non collocato nel corretto alveo giuridico, può costituire la sorgente di una fonte di diatriba all’interno dei processi decisionali di un Ente Locale: la nomina ad agente contabile del dipendente incaricato della gestione dei buoni pasto. Senza entrare nel merito di una idonea allocazione, nell’organigramma dell’Amministrazione, del personale cui è stata assegnata la mansione relativa all’approvvigionamento e successiva erogazione dei buoni pasto, l’obiettivo prefissato è quello di chiarire tecnicamente un dilemma che spesso ci si trova ad affrontare, ossia se considerare coloro che gestiscono i buoni pasto dei semplici agenti amministrativi oppure inquadrarli nell’ampia sfera degli agenti contabili. In materia la dottrina, generalmente, distingue tra due differenti gestioni:
a) amministrativa, in altre parole quella che si manifesta attraverso il potere dispositivo di beni, ma non nella concreta gestione di denaro o valori;
b) contabile, ovvero quella che si esplicita attraverso l’effettiva disponibilità, cui ne consegue il maneggio, di denaro o valori.
In quest’ultimo caso, in particolare, il responsabile della gestione contabile deve predisporre, ai sensi dell’articolo 611 del Regio Decreto n° 827/1924 «Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato», un documento rappresentativo delle operazioni effettuate (conto giudiziale) da rendere alla Corte dei Conti, per il tramite dell’Amministrazione di appartenenza. Conseguentemente, alla luce di quanto esposto sinteticamente, la responsabilità amministrativa differisce da quella contabile in quanto la prima può essere fonte di un illecito erariale causativo di danno, mentre la seconda impone la dimostrazione di una corretta gestione, attraverso l’obbligo generale di rendicontazione, che insiste su quella particolare e analitica, accollato a tutti i soggetti pubblici, che trova la sua consacrazione nell’articolo 81 della Carta Costituzionale. Specifica e dettagliata disciplina sul tema della responsabilità contabile si rinviene, altresì:
a) nel Regio Decreto n° 2440/1923 «Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato» - articoli 74, 84 ed 85;
b) nel Regio Decreto 827/1924 «Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato» - articolo 178 e seguenti;
c) nel Regio Decreto n° 1214/1934 «Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti» - articolo 52;
d) nel DPR 3/1957 «Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato» - articolo 21.
Entrando più propriamente nel merito dell’oggetto di cui alla presente trattazione, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 18 novembre 2005 «Affidamento e gestione dei servizi sostitutivi di mensa» nell’enucleare alcune definizioni, esplicita in modo chiaro ed inequivocabile che il buono pasto non è convertibile in denaro, pur avendo un valore facciale, dando esclusivamente diritto, al possessore, alla somministrazione di un servizio. Non esiste, quindi, alcun dubbio che il buono pasto, pur non potendo essere convertito in denaro, costituisce, tuttavia, un valore di cassa “interno” (alla pari dei valori bollati), la cui quantificazione è corrispondente a quella facciale stampata sul documento cartaceo che lo materializza. Pertanto, in base alle considerazioni esposte, può sorgere il dubbio, qualora i buoni pasto non siano condotti nella definizione di “valore di cassa”, se al personale responsabile della loro gestione si possa o meno attribuire il beneficio economico previsto dall’articolo 36 «Indennità maneggio valori» del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL) sottoscritto il 14 settembre 2000 (code contrattuali) del Comparto «Regioni/Autonomie Locali». Infatti, il contenuto esclusivamente letterale del citato articolo 36 non fa alcun esplicito riferimento a cosa si intende per “valore di cassa”, il quale, tuttavia, può trovare ampia trattazione all’interno del Contratto Decentrato Integrativo, attraverso un’estensione dell’interpretazione alla fattispecie dei buoni pasto. Operando in questa direzione, il Contratto Decentrato Integrativo sarebbe così investito, tra l’altro, della responsabilità di individuare in maniera inconfondibile i soggetti percettori dell’indennità derivante dal maneggio valori e non solo di quella legata alla definizione dell’entità monetaria da erogare, scegliendola nell’intorno di un intervallo che si colloca tra un minimo di euro 0,52= (ex lire 1.000=) ed un massimo di euro 1,55= (ex lire 3.000=), naturalmente, proporzionato al valore medio mensile dei valori maneggiati ed in funzione delle giornate nelle quali il dipendente è effettivamente adibito al servizio in questione. E’ interessante, inoltre, osservare come il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro citato non faccia alcuna specifica allusione al fatto che colui che maneggi valori e, per conseguenza, risulti titolare del diritto all’indennità relativa, sia automaticamente investito della qualifica di agente contabile oppure debba trovare la sua legittimazione in un formale provvedimento di nomina. Giuridicamente la nozione di agente contabile si estrapola dall’articolo 74 del Regio Decreto n° 2440/1923 «Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato» che lo distingue in:
a) agente della riscossione;
b) agente pagatore o tesoriere;
c) agente consegnatario.
L’agente consegnatario, quindi, non solo è qualificato ex lege come agente contabile, ma, nel rispetto del combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’articolo 29 del Regio Decreto n° 827/1924 «Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato», è personalmente responsabile dei beni ricevuti in custodia, fino a che non ne abbia ottenuto legale discarico, rispondendo anche della variazione che subisce l’entità dei crediti a lui affidati. Nella prospettiva di contribuire oggettivamente sull’argomento, si premette che il buono pasto si può serenamente considerare, a tutti gli effetti, un “bene” sia sotto il profilo economico, sia sotto quello giuridico. Nello specifico, il “bene” è considerato:
a) dalla teoria economica, come «ogni mezzo materiale e immateriale ritenuto idoneo a soddisfare un bisogno». In altre parole, affinché si possa classificare qualcosa come “bene” è necessario, in ambito economico, che questo sia in grado di fornire una qualunque utilità e, contemporaneamente, sia dotato di un prezzo positivo;
b) dalla giurisprudenza, come «le cose che possono formare oggetto di diritti», nel rispetto del dettato dell’articolo 810 del Codice Civile.
Alla luce di quanto sopra affermato, si può realisticamente comprendere e condividere come il buono pasto possa rientrare nella definizione di “bene” sotto l’aspetto sia economico, sia giuridico. Infatti, il buono pasto:
a) economicamente:
- è idoneo a soddisfare un bisogno (quello di mangiare);
- fornisce un’utilità, in quanto è manifestamente esplicita l’esistenza di un bisogno, che trova corrispondenza nel bene;
- è dotato di un prezzo positivo, in quanto è palese la presenza di un mercato nel quale il buono pasto è acquistato/scambiato;
b) giuridicamente:
- forma oggetto di un diritto (quello alla somministrazione di un servizio);
- è mobile, in quanto può essere trasferito fisicamente.
Pur non esistendo ad oggi una specifica pronuncia da parte della Magistratura nella direzione di eliminare ogni forma di personale interpretazione circa l’obbligo di rendicontazione, attraverso il conto giudiziale, per il dipendente incaricato della gestione dei buoni pasto, si ritiene che lo stesso, alla luce delle osservazioni formulate, rientri tra gli agenti contabili ex lege e che, pertanto, il suo ruolo debba essere regolato attraverso un formale atto di nomina all’interno dell’Ente di appartenenza. Tuttavia, nonostante il buono pasto negli Enti Locali, ma più in generale in tutta la Pubblica Amministrazione, si possa considerare una conquista recente, già in tempi non sospetti e a sostegno delle tesi elaborate, era intervenuta la Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio - che, con Sentenza n° 12/98/R, nel condannare un dipendente di un Ente Pubblico per aver sottratto buoni pasto, precisava «(omissis) ... Particolarmente grave appare il fatto che egli non abbia mai presentato un rendiconto, che è indispensabile atto contabile nei servizi a denaro e per valori ... (omissis)». Pertanto, qualora l’Ente Locale non abbia provveduto, per dimenticanza o altro, agli adempimenti di cui all’articolo 233 - comma 2, lettera a) - del Decreto Legislativo n° 267/2000 «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali», non significa che i dipendenti responsabili della gestione dei buoni pasto, siano esonerati dal rispettare gli obblighi previsti per gli agenti contabili. Sarebbe opportuno che coloro che sono chiamati in prima persona nel processo decisionale all’interno delle Amministrazioni Pubbliche, in assenza di precise disposizioni in merito ad argomenti delicati, soprattutto se fonti di potenziale addebito di responsabilità, uscissero dall’arcaico schema secondo il quale tutto ciò che la legge non dice espressamente è vietato. Per opportuna conoscenza, si ricorda che l’articolo 103 della Costituzione prevede chiaramente l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei Conti nelle materie di contabilità pubblica e che, pertanto, qualunque disposizione che limiti o, addirittura, esoneri da tale giurisdizione è da ritenersi costituzionalmente non corretta. L’adozione di qualsivoglia provvedimento, così come un comportamento omissivo, che si traduca in un’esenzione dell’agente contabile ex lege dall’obbligo di presentare il conto giudiziale è da considerare costituzionalmente illegittimo, non solo perchè contrasta con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini, ma in quanto da esso deriva l’indisponibilità del diritto pubblico all’accertamento obbiettivo della correttezza di gestione. Nella speranza di aver contribuito alla risoluzione di una potenziale minaccia, con particolare riguardo alla tutela degli interessi del personale cui è affidata la responsabilità della gestione dei buoni pasto, si spera che, attraverso un banale atto amministrativo, si provveda a regolare una posizione, che, in futuro, potrebbe avere conseguenze ancor più gravi rispetto all’applicazione di una norma generale di buon senso.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 1/Gennaio 2007 con il titolo «La responsabilità contabile del dipendente incaricato della gestione dei buoni pasto»

14 November 2013

Quale futuro per la Città di oggi?

Il sociologo polacco Zygmunt BAUMAN, in un libro che pone in discussione la vita quotidiana delle persone nelle Città, sostiene che quest'ultime «sono diventate delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione. I Cittadini e coloro che sono stati eletti come loro rappresentanti, vengono messi di fronte a un compito che non possono neanche sognare di portare a termine: il compito di trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali». Il passaggio è tremendamente coinvolgente perché, oggi, la Città ha a disposizione gli strumenti per superare quelle incompatibilità imposte dal fenomeno della globalizzazione: sarebbe sufficiente compiere uno sforzo per individuare nuove politiche pubbliche. I bisogni della Comunità di riferimento possono, se si vuole, trovare ampia soddisfazione con azioni improntate all’erogazione di servizi di qualità ed efficienti. Comportamenti orientati in questa direzione devono, però, trovare adeguato fertilizzante nelle risorse prodotte da un terreno che abbia la capacità di sostenerli, senza perdere di vista la propria identità. Ad una domanda di servizi generata “dal territorio” che si governa, occorre rispondere con un’offerta di servizi “per il territorio”, per impedire che i sacrifici compiuti si disperdano altrove senza produrre gli effetti sperati. Ciò non significa chiudersi a riccio nella difesa estrema del campanile, con il rischio di essere schiacciati al primo rumore di fondo, semmai ampliare il campo visivo per acquisire piena conoscenza delle peculiarità del comprensorio circostante. Lo storico inglese Thomas FULLER asserì che «gli uomini, non le case, fanno la Città», che oggi è sempre più un bivio tra opportunità e frustrazioni, decadenza e sviluppo, benessere e paura, dove fioriscono problemi, ma, allo stesso tempo, può trovare residenza il più grande serbatoio di creatività per «rendere più umana la società degli uomini». In altre parole, prendendo a prestito uno slogan coniato da una multinazionale di successo, quello che dovrebbe fare un Amministratore locale serio, credibile e capace è “pensare globale per agire locale”.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suhttp://cambiamentoorg.blogspot.com il 16 settembre 2010 con il titolo «Quale futuro per la Città di oggi?»

3 November 2013

"It's the economy, stupid!"

Quando nei primi Anni ’90 l’America decise di cambiare registro, lo slogan che influenzò l’allora opinione pubblica era, al tempo stesso, banale e profondo. Banale perché non erano necessari anni di studio oppure una conoscenza approfondita della materia per comprendere cosa, nel fare politica, non deve mai essere tralasciato o abbandonato nel dimenticatoio. Profondo perché con quel motto si voleva andare a colpire, con una chiarezza espositiva fuori dal comune, l’attenzione e la coscienza di milioni di americani. Oggi, quel manifesto dovrebbe fare da guida all’intera classe politica italiana (locale e nazionale) impegnata quotidianamente a litigare per assumere decisioni pubbliche che andranno ad impattare negativamente sul futuro non solo delle giovani generazioni, ma anche su quello dell’intera collettività, senza pietà od esclusione di sorta. Qualcuno potrebbe legittimamente osservare che si tratta di un’automatica applicazione della legge della natura, dove è il più forte a prevalere ed il più debole a soccombere, lasciando campo libero ad una schiera di individui senza scrupoli nei confronti di iniziative volte a migliorare il benessere sociale. Ciò si verifica perché i programmi e le proposte elaborati sono spesso il frutto di improvvisazioni guidate da pruriti personali, piuttosto che inquadrati in un contesto che abbracci le effettive esigenze altrui. Non occorrono luminari della scienza, ma è sufficiente un minimo di coscienza, limitandosi a far tesoro del monito lanciato da Albert ACREMANT: «Quando prendiamo una decisione, dobbiamo sempre pensare alle conseguenze che essa avrà sugli altri». Infatti, è in questa ottica che quello slogan usato in campagna elettorale, “It’s the economy, stupid!”, si proponeva l’ambizioso obiettivo di mettere in luce come una politica miope e sterile non avrebbe portato da nessuna parte, se non nella univoca direzione di salvaguardare gli interessi parziali a scapito del benessere dell’intera Comunità. Ed è proprio in uno scenario come quello prospettato che si inseriscono, senza il minimo sforzo, mirabolanti promesse arringate intorno ad un tavolo. Non serve sprecare tempo a studiare quali accorgimenti adottare per la creazione di uno specifico fondo, perché quello è già stato toccato da un pezzo e, forse, è giunta l’ora di iniziare a scavare. L’economia di un paese non è come la gestione di un cassetto dove a furia di arrabattarsi si corre il rischio di rompersi le unghie per poi scoprire, con amara tristezza, che nel fondo si potrà trovare solo qualche granello di polvere se non nulla. Così come è priva di qualsiasi utilità illudere i Cittadini di volerli premiare (con denaro pubblico) se dimostreranno di essere “virtuosi”, ossia se rispetteranno i principi e le regole che si ispirano alla convivenza civile. Uno squallido tentativo per ringraziarli di ergersi a “cittadini modello” in una società indisciplinata, contribuendo, con il denaro pubblico, ad alleviare le loro sofferenze tributarie. Peccato che, nel formulare allettanti promesse di puro stampo elettorale/propagandistico, tali da far roteare, come in una slot machine, il simbolo del dollaro nei bulbi oculari dei votanti, spesso sono ignorati elementari principi non solo di equità e giustizia, ma addirittura le più elementari regole del dovere civico cui deve ispirarsi il comportamento di ogni appartenente alla società civile. Senza considerare, in ultimo, quei principi economici che, sulle orme dell’insegnamento del “Rasoio di Occam”, spingerebbero chiunque ad esclamare: “It’s the economy, stupid!”. Le regole, per definizione, vanno rispettate e nessun premio deve essere promesso ed erogato in cambio della loro osservanza. Non fornisce alcun beneficio alla collettività perfezionare l’educazione di chi è già in possesso di questo qualità. Occorre, al contrario, agire per riequilibrare il comportamento di chi ignora l’esistenza della buona condotta. Non servono particolari tecniche per spiegare la validità di una simile teoria. In un concorso a premi il primo classificato sarà sempre, e solo, uno e non sarà mai incentivato a migliorare, perché gli sarà sufficiente dimostrare di essersi comportato un infinitesimo meglio degli altri per ricevere la ricompensa, senza aver contribuito, in contropartita, all’accrescimento del benessere sociale. Inoltre, si è epistemologicamente ignorato l’assioma secondo il quale l’elargizione di un premio con denaro pubblico andrà a peggiorare la condizione sociale non solo dei perdenti, ma anche quella del vincitore. Al contrario, una politica rieducativa, imperniata su strumenti alternativi al sistema delle ricompense, potrà garantire un benessere sociale superiore sia al vincitore, sia, paradossalmente, ai perdenti. Ma non c’è da meravigliarsi di fronte a simili boutade, perché lo stesso Franklin Pierce ADAMS ci aveva già messi in guardia: «Il problema di questo paese consiste nel fatto che ci sono troppi uomini politici che credono, con la certezza che deriva dall’esperienza, che si possa ingannare tutto il popolo in ogni momento».
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 02 novembre 2013 con il titolo «"It's the economy, stupid!"»

24 October 2013

Introduzione al Controllo di Gestione

Sono ormai trascorsi più di dieci anni da quando il legislatore nazionale ha percepito l’importanza o meglio la necessità di introdurre, anche nella Pubblica Amministrazione, strumenti di gestione di derivazione privatistica. Il percorso di avvicinamento ad un sistema di amministrazione simile a quello in uso presso le aziende private è avvenuto in seguito alla progressiva emanazione di norme finalizzate all’inserimento della contabilità economica ad integrazione di quella finanziaria. Infatti, mentre la contabilità finanziaria rileva i fatti amministrativi solo ed esclusivamente analizzandone l’impatto monetario (entrata, uscita, avanzo/disavanzo), quella economica non esclude questa tipologia di rilevazione, ma la supporta con informazioni di natura economica (costi, ricavi, margini). L’orientamento dei provvedimenti, ancora a livello embrionale, hanno dato la sensazione di un opportuno repentino cambio di rotta rispetto ad un sistema di gestione delle risorse pubbliche basato sulla semplice misurazione contabile dell’azione amministrativa. Le norme che nel tempo si sono susseguite hanno costretto gli operatori a costruire le fondamenta per lo sviluppo step by step di un lavoro destinato a ridurre il gap esistente tra il modello gestionale delle aziende private, caratterizzato da elasticità/flessibilità, e quello delle Amministrazioni Pubbliche, improntato alla rigidità/complessità. Con la rilevazione dei fatti di gestione sotto il profilo economico, l’Ente Pubblico ha così affiancato le tradizionali informazioni finanziarie a quelle economiche, necessarie per migliorare la valutazione preventiva e prospettica di processi decisionali idonei per un efficace funzionamento della res publica. In quest’ottica, gli operatori del settore sono stati invitati, dall’input normativo, ad abbandonare schemi stereotipati, frutto di prassi preistoriche senza logica e di un radicato modus operandi informato al detto “si è sempre fatto così e bisogna continuare a farlo”. In pratica, gli attori sono stati sensibilizzati all’approccio di una filosofia di pensiero caratterizzata dalla concreta consapevolezza che una scelta amministrativa può avere una convenienza applicativa se analizzata anche in ambito economico, anziché limitare lo studio di fattibilità esclusivamente all’aspetto finanziario. E’ alquanto singolare che ogni indirizzo gestionale, che nel settore privato si colloca nell’alveo delle decisioni manageriali, limiti il campo di analisi confinandolo alla sterile verifica delle disponibilità finanziarie esistenti sul capitolo/intervento di imputazione della pertinente spesa. Infatti, è paradossale pensare che il perseguimento dell’interesse generale sia frutto di decisioni, che trovano in un documento di tipo autorizzatorio dei vincoli, anziché delle opportunità. In altre parole, qualsiasi deliberazione che impatta sul benessere collettivo (nazionale, regionale o locale) dovrebbe comprendere anche un’analisi di redditività, intesa come capacità di generare reddito o, in alternativa, utilità sociale. L’impalcatura del sistema contabile ancora in uso presso la maggior parte della Pubblica Amministrazione, unitamente ad una scarsa cultura manageriale propensa al cambiamento, giustifica la differenza di terminologia utilizzata per definire il modello gestionale come:
a)      flessibile/elastico, per il settore privato;
b)      complesso/rigido, per l’ambiente pubblico.
La flessibilità/elasticità nasce dalla capacità e volontà del management aziendale di modellare decisioni già adottate con rapidità per:
a)      sfruttare opportunità precedentemente ignorate;
b)      reagire a minacce provenienti dall’ambiente esterno/interno;
nel rispetto di un obiettivo generale condiviso all’interno dell’Organizzazione, che trova la sua giustificazione nella necessità di continuare ad esistere sul mercato. L’azienda, quindi, si configura come entità che, dovendo sopravvivere nella giungla concorrenziale, affida la gestione ad un management camaleontico, capace di sviluppare un processo decisionale in qualsiasi contesto, senza traumatizzare la mission grazie ad un mutamento appropriato e idoneo a garantirne la continuità operativa. La complessità/rigidità, per contro, si manifesta con l’incapacità e mancanza di volontà degli Amministratori pubblici (politico/amministrativi) di intervenire con tempestività nella prospettiva di un miglioramento, in termini di qualità/efficienza, dei servizi erogati alla comunità locale di riferimento, per:
a)      modificare scelte già deliberate;
b)      affrontare cambiamenti normativi;
in quanto, all’interno dell’Organizzazione, è scarsa la sensibilità nei confronti di un target condiviso e non è recepito alcun pericolo in merito alla sopravvivenza dell’Ente. La Pubblica Amministrazione si presenta come un’organizzazione che, non essendo soggetta alla procedura concorsuale del fallimento, è gestita come un pachiderma, con la conseguenza che non è in grado di cogliere le opportunità derivanti da qualsiasi cambiamento, impattando i risultati in sinuosi meandri procedurali oppure sacrificando potenziali effetti benefici al rispetto formale di regole burocratiche. Proprio per contrastare questa mentalità, ma anche nella direzione del perseguimento dell’obiettivo generale di abbattimento della spesa pubblica, il legislatore è intervenuto con una serie di provvedimenti finalizzati a spingere l’azione amministrativa verso regole gestionali maggiormente aderenti alla realtà, uscendo dallo schema di controllo delle attività fondato sulla burocrazia. Un Amministratore sensibile ai problemi della Comunità che governa, oggi è sempre più consapevole che i servizi pubblici potranno essere di qualità superiore solamente se i processi posti in essere saranno capaci di soddisfare le esigenze della cittadinanza e non se avranno rispettato formalmente i procedimenti amministrativi, che, nel loro contenuto, sono disinteressati all’effettivo bisogno della società di riferimento. Le regole organizzative sulle quali ancora oggi ruota il governo della Pubblica Amministrazione si imperniano su logiche:
a)     giuridico formali - è necessario interpretare rigidamente la norma, considerando solo ed esclusivamente ciò che il dettato dispositivo recita, tralasciando i margini di libertà insiti in ciò che non è disciplinato espressamente;
b)   procedurali - la mancanza di creatività fa sì che è importante “fare e compilare” piuttosto che “pensare e risolvere”;
c)     di competenza - in altri termini, occorre limitare la propria attività a ciò che compete, non interferendo sull’attività dell’Ufficio che ha generato l’input e non coinvolgendo gli Uffici ai quali è diretto l’output;
d)    autoreferenziali - è essenziale rispettare ciò che la forma impone, senza preoccuparsi se la sostanza dei risultati prodotti genera benefici all’utente finale.
Il legislatore, per ciò che gli compete, ha riconosciuto con le norme l’importanza di andare oltre il concetto di controllo di stampo burocratico, inteso come preciso rispetto di formalità, per meglio orientare l’azione amministrativa grazie al supporto strategico del controllo di estrazione manageriale. Conseguentemente, per effetto di valutazioni economiche preventive e prospettiche, sarà possibile migliorare l’allocazione delle risorse (umane, strumentali, tecnologiche e finanziarie) per ottenere risultati apprezzabili in termini di soddisfazione da parte dei diretti interessati. Operando in questa direzione, miglioreranno gli indici di assorbimento dei fattori produttivi, che qualche lettore potrebbe correttamente intendere come sinonimo di minore spreco o maggiore efficienza, rappresentando la genesi per lo sviluppo di ulteriori benefici sociali. Si innescherà un circolo virtuoso di generazione di nuove risorse da quelle esistenti, senza dover chiedere nulla, in termini di risparmio forzoso, ai Cittadini, i quali si troveranno beneficiari di servizi pubblici migliori senza la richiesta di un sacrificio supplementare. La stessa dottrina ravvisa l’esigenza che «per la pubblica amministrazione un punto di svolta decisivo sul piano dell’efficienza e della funzionalità si può avere con il passaggio dallo sfruttamento delle capacità esecutive (controllo burocratico) all’attivazione ed al pieno sfruttamento delle capacità di adattamento dell’azione al mutamento e di rinnovamento dei processi amministrativi (controllo manageriale)» (Elio BORGONOVI - «Azienda Pubblica» - Maggioli Editore). In un contesto caratterizzato sempre più da scenari in continua istantanea evoluzione, l’Amministratore pubblico deve saper affrontare, ma soprattutto risolvere, i bisogni della Comunità, gestendo l’approccio al problem solving con dinamismo, grazie alla combinazione sinergica di tutti gli strumenti a supporto delle decisioni. L’attenzione si sposta, quindi, dal rispetto di regole ridondanti al controllo dei risultati, riducendo il time to market necessario affinché la soluzione prospettata si traduca in linee guida verso l’adozione di provvedimenti idonei a produrre gli effetti desiderati. Coloro che hanno la possibilità di manovrare le leve decisionali all’interno dell’Ente dovranno convincersi, ma più di ogni altra cosa condividere l’idea, che la Comunità di riferimento si aspetta un deciso miglioramento sia dell’efficienza interna, sia dell’efficacia degli interventi. Solo una gestione che ottimizza i costi di funzionamento della struttura pubblica sarà capace di individuare e destinare una quantità maggiore di risorse a processi di produzione ed erogazione di servizi in grado di rispondere, con successo, alle aspettative della cittadinanza. Il perseguimento dell’economicità di gestione, che non deve assolutamente tradursi come taglio di risorse, ma migliore allocazione di quelle disponibili, deve diventare l’obiettivo primario di tutti gli Amministratori pubblici. Essi devono acquisire la consapevolezza che attraverso il potenziamento della struttura, per effetto di un crescente sviluppo delle capacità organizzative interne, si potrà arrivare ad offrire servizi sempre più personalizzati, nel rispetto delle strategie definite a monte e dei vincoli di bilancio tradotti a valle. In un ambiente caratterizzato da una pluralità e complessità di variabili in gioco, si colloca il processo di Controllo di Gestione, come insieme di attività in grado di mettere a disposizione della direzione politico/amministrativa informazioni utili per governare la realtà attraverso l’adozione di politiche razionali. Si tratta di un orientamento di natura economico/aziendale in quanto il carburante che alimenta l’attività del controller è costituito da una gestione razionale delle risorse disponibili, per rendere razionale l’attività di consumo delle risorse non solo finanziarie. In questa direzione, non si può pensare di impostare le attività del Controllo di Gestione senza aver delineato a monte quelle di programmazione, al fine di assicurare, per effetto del continuo confronto obiettivi/risultati, la realizzazione delle finalità dell’Ente. Sotto questo aspetto, il Controllo di Gestione si concretizza in un’attività che per essere efficacemente implementata necessita di una preventiva e capillare analisi delle peculiarità del singolo Ente e della sua organizzazione interna, al fine di comprendere e chiarire cosa si intende per qualità/efficienza ed efficacia e tradurre le definizioni in concreti sistemi di misurazione. Il Controllo di Gestione nell’Amministrazione Pubblica è, quindi, prima di tutto una sfida culturale senza precedenti, dal momento che ogni individuo non percepisce con favore qualsiasi processo di cambiamento che va ad incidere sulla sfera lavorativa. La novità è guardata con sospetto, poiché costituisce un pericolo latente che influenza quell’ambito gestionale conquistato con fatica nel tempo, in altri termini l’orientamento al cambiamento è tradotto come la progressiva perdita di un potere consolidato, che non si ritiene suscettibile di mutamento, sia esso migliorativo o innovativo. Le prime risorse dovranno perciò essere investite nel processo di comunicazione interno nella speranza di far condividere agli Amministratori che il Controllo di Gestione non è finalizzato all’ispezione e alla punizione, ma è uno strumento di guida indirizzato a verificare le attività nell’ottica della ricerca continua del miglioramento. Un Amministratore pubblico particolarmente illuminato che saprà inquadrare il Controllo di Gestione come essenziale strumento di decision support system per la pianificazione strategica, potrà garantire, da un lato, un reale miglioramento dell’efficacia dell’azione amministrativa e, dall’altro, un livello qualitativo dei servizi offerti alla cittadinanza sensibilmente migliorato. Il crescente livello di soddisfazione percepito dalla comunità locale si tradurrà in consenso per i risultati raggiunti, ricucendo quello strappo che nel tempo ha progressivamente allontanato il Cittadino dalla gestione dell’Amministrazione Pubblica, nei confronti della quale è invece l’elemento centrale del suo buon funzionamento.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 7-8/Luglio-Agosto 2013 con il titolo «Introduzione al Controllo di Gestione»

15 October 2013

Il potere della diversità culturale

In Italia, fortunatamente, la libertà di pensiero è tutelata e garantita dalla Carta Costituzionale sin dai tempi del dopoguerra. E' opportunamente e volutamente inserita all’interno di quei principi fondamentali ed inviolabili frutto di un lungo dibattito parlamentare mirato a salvaguardare definitivamente quella libertà di espressione che il recente passato aveva violentemente abolito od impedito. In sede costituente è ancora oggi affascinante osservare e ricordare come dallo scontro di opinioni diverse e, spesso, divergenti sia stata partorita una soluzione condivisa e apprezzata al termine di un processo lento, laborioso e, alla fine, fruttuoso. Questo è potuto accadere solo perché di fronte alla diversità culturale dei membri dell'Assemblea Costituente, l’obiettivo comune e primario, pur nel rispetto reciproco, era quello di comprendere anche le ragioni dell’altro. Oggi, la Costituzione manifesta ancora la sua vitalità, ma quel principio di libertà di espressione appare come sepolto sotto le macerie di un livello culturale arenatosi nella peggiore chiusura mentale di fronte a cambiamenti che non si possono né ostacolare, né fermare. E’ assai difficile immaginare di illustrare il proprio punto di vista ad una platea la cui opinione è orientata in altra direzione. Il rischio è quello di essere interrotti un migliaio di volte e contestato miseramente per ciò che si aveva l’intenzione di sostenere. All’estero ciò non accade. Anzi, se il pubblico è di un certo colore, questo rappresenta uno stimolo a manifestare liberamente un’idea contraria, sperando che insieme alla platea si possa aprire un’ampia discussione. Infatti, il punto di forza non è rappresentato dall’oggetto del contendere e nemmeno dalle differenti opinioni dei convenuti. La più grossa opportunità è offerta dal dibattito che ne può scaturire, dove ciascuno non sostiene più a spada tratta la propria idea, ma la mette in discussione, cercando di trovare dei punti di contatto o di intersezione e non necessariamente elementi di divisione e di lontananza con l’interlocutore. E’ proprio grazie a questa diversità che si può riuscire ad incrementare il patrimonio culturale degli individui e spalancare le porte ad una vera libertà di espressione, manifestata senza la necessità che sia stampata su un foglio di carta o calpestata ad ogni ricorrenza. In Italia, al contrario, si assiste quotidianamente a contraddittori inutili e ridondanti dove la finalità estrema è quella di svergognare la persona che si ha di fronte piuttosto che creare insieme a lui le premesse per una soluzione dei problemi che, non sono mai di parte, ma comuni. L’attenzione dei media si è spostata, probabilmente per questioni di audience o di tiratura, sul gossip anziché ciò che la cultura e la scienza hanno scoperto. E’ più importante concentrare energie e fiumi di parole o di inchiostro sull’ultimo scandalo di palazzo anziché “perdere tempo” a formulare considerazioni su ciò che la diversità culturale contribuisce a costruire. In democrazia non serve avere un esercito di pappagalli perché l’errore non sarebbe mai messo in discussione ed ostacolato nella diffusione, ma ripetuto fino all’ultima eco. Se un argomento susciterà interesse e darà luogo ad un dibattito, l’insegnamento che se ne potrà trarre è solo quello di una profonda soddisfazione. Ma per farlo non occorre andare lontano o fare tanta fatica. E’ solamente richiesto di essere culturalmente diversi.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 09/Settembre 2013 con il titolo «Il potere della diversità culturale»

6 October 2013

Elezioni: il prossimo tormentone

L’estate sta finendo …”. Sono trascorsi quasi trent’anni da quando i RIGHEIRA lanciarono questo tormentone di successo. Un leitmotiv che, all’epoca, sanciva con profonda amarezza, da un lato, la fine di una stagione estiva trascorsa all’insegna del divertimento, pur in mancanza di notti bianche, e, dall’altro, l’avvicinarsi inesorabile del periodo più tetro dell’anno. E in un paese a forte vocazione turistica, la fine dell’estate era spesso accompagnata da un velo di tristezza. La Città si ritrovava, come per magia, svuotata di quel via vai quotidiano formato da persone che, più o meno educatamente e rispettose degli usi e costumi incontrati, abbandonavano il luogo di vacanza per rientrare all’ovile e ricominciare a vivere nella routine la propria vita, facendo progetti sul prossimo periodo di ferie. Oggi quello spirito ha subito profonde e radicali modifiche e coloro che abitano nelle località turistiche spesso tirano un sospiro di sollievo all’avvicinarsi dell’autunno. Il turista è visto come un elemento di disturbo e non più come una fonte di ricchezza. Ciò perché laddove mette piede il gitante si creano dei problemi che devono essere sempre risolti a spese dei residenti. Mentre in passato il turista stimolava gli operatori del settore ad offrire servizi sempre migliori, invitandolo a soggiornare con iniziative di intrattenimento, oggi quegli stessi addetti ai lavori pretendono di vivere (o sopravvivere) di rendita, demandando all’Amministrazione Pubblica l’onere di organizzare eventi di attrazione a vantaggio di pochi ed a spese di molti, senza alcun ritorno positivo in termini di servizi offerti alla collettività. L’andazzo generale, pubblico e privato, è orientato al progressivo declino. L’intera società si sta dirigendo a passi lunghi e ben distesi verso un circolo vizioso, inconsapevole e fiduciosa che il tragitto da percorrere per toccare il fondo sia ancora notevole. Le promesse della classe politica emergono con inaudita vitalità quando si sta per avvicinare una competizione elettorale, prospettando cambi di rotta con politiche illusionistiche che non fanno altro che appesantire il piede che preme sull’acceleratore del degrado. Se è vero che non esiste un limite al peggio, corrisponde ad altrettanta verità che è abbastanza facile ragionare in termini alternativi. Occorre smetterla definitivamente di predicare il verbo che fa leva sul miraggio di vedere una luce in fondo al tunnel, per rendersi conto che quel chiarore è il realtà un fuoco che sta lentamente e costantemente bruciando ogni velleità di costruire un benessere diffuso. Questo sarà il destino collettivo se non si vorrà modificare quella filosofia di pensiero che, in tutti questi anni, ha sempre consegnato le chiavi del Paese nelle mani sbagliate. Questo sarà il futuro comune se ci si accontenterà di politiche pubbliche adottate con miopia strategica. Questo è ciò che accadrà se si vorrà continuare a considerare la lungimiranza come attenzione ad occupare il centro del potere più a lungo possibile e non come capacità di vedere al di là del proprio naso (o interesse personale). Se si avrà l’accortezza di cambiare strada, allora le decisioni seguiranno a ruota. I problemi si potranno risolvere, così come potranno essere generate le risorse per un futuro diverso, migliore di quello imperniato su promesse mai mantenute. In alternativa, si potrà continuare ottusamente a pensarla allo stesso modo, riponendo la personale fiducia in coloro che fino ad oggi hanno rappresentato i Cittadini, con risultati più che evidenti. L’importante è sempre essere consapevoli delle proprie scelte, senza poi lamentarsi se il tormentone dance della prossima stagione estiva sia un revival di quello lanciato dagli ART OF LOVE qualche anno fa: “Lo sento dentro”.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 05 ottobre 2013 con il titolo «Elezioni: il prossimo tormentone»

29 September 2013

Qual è il fine del governare la res publica?

Se è vero che Aristotele ha esaminato il ruolo dello Stato in materia economica, corrisponde ad altrettanta verità che lo ha fatto tenendo ben fermo il principio che il “fine dello Stato è il vivere bene”, nel senso che ogni Pubblica Amministrazione deve essere in grado di garantire maggior benessere al suo popolo. Non è facile, invece, individuare quale sia il fine nel comportamento assunto dagli Amministratori Pubblici e, conseguentemente, se gli obiettivi della loro gestione siano improntati al perseguimento di quei benefici che la Comunità di riferimento ha il diritto di reclamare. Purtroppo, si constata come il ruolo da essi ricoperto non sempre sia all’altezza delle responsabilità che si incontrano nel governare la “cosa pubblica”. Infatti, in ossequio alla compiacenza con l’uno o l’altro burocrate di turno si licenziano bilanci che esprimono tutt’altro di ciò che in realtà devono rappresentare.  Così accade che quella parvenza di corretta applicazione di norme, sia puntualmente disattesa con l’approssimarsi delle scadenze che impongono la verifica del mantenimento degli equilibri generali. A farne le spese sono sempre i Cittadini, colpevoli di necessitare di quei bisogni essenziali, come l’istruzione od i servizi sociali, che in futuro saranno tagliati, per effetto della scure dell’incapacità amministrativa. Sanzionare i responsabili per previsioni del tutto fuorvianti dall’elementare applicazione del principio della prudenza non è mai all’ordine del giorno. Se così fosse, infatti, non sarebbe possibile mantenere in vita quei giochi di complicità, che costituiscono il perno intorno al quale ruotano le cattive gestioni. E’ molto più semplice punire i Cittadini perché, una volta espressa la loro preferenza nell’urna, nulla può essere elemosinato da loro fino alla prossima campagna elettorale. Eppure, non costerebbe nulla allontanarsi dal quel comportamento mosso dall’interesse personale in direzione di quello che Michio MORISHIMA chiama “ethos giapponese”, costituito da senso del dovere, lealtà e buona volontà, che hanno sempre prodotto il successo di qualsiasi politica.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suhttp://cambiamentoorg.blogspot.com il 03 settembre 2010 con il titolo «Qual è il fine del governare la res publica?»

14 September 2013

L'opportunità di una società partecipata

Quotidianamente il Cittadino si trova ad impattare con l’attività della Pubblica Amministrazione. Sono una rarità i casi in cui da questo incontro ravvicinato ne esca vincitore, poiché il potere d’imperio cui dovrebbe ispirarsi l’azione amministrativa del Settore Pubblico lo colloca sempre al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Tutto ciò non sarebbe fonte di preoccupazione se l’esercizio di questa supremazia andasse nella direzione volta a soddisfare i sempre più numerosi bisogni della platea di riferimento. Per contro, l’uomo della strada sembra aver ereditato, o contratto, il morbo della “insoddisfazione perenne”, perché qualunque sia il colore di una decisione pubblica, il parere rimane stabilmente collocato nell’alveo della contrarietà. Per ovviare a questo malessere diffuso potrebbe essere utile poter sfruttare l’opportunità offerta da una società partecipata, nella quale a decidere le sorti del loro futuro sono direttamente i Cittadini, con le modalità assicurate da questo strumento. All’Organo esecutivo della Pubblica Amministrazione resterebbe solo, in via residuale, il delicato compito di gestire gli input provenienti dalla Comunità che rappresenta e, soprattutto, nel loro esclusivo interesse. La realtà, purtroppo, ha abituato l’essere umano ad altri scenari e spesso lo costringe ad aprire gli occhi su conseguenze ben diverse, il più delle volte frutto di distorsioni comunicative o, per meglio dire, interpretative sul vero significato di società partecipata. Infatti, se il riferimento è allo specifico caso di cui sopra, l’obiettivo è quello di consentire ai Cittadini di scegliere tra opzioni diverse ed aventi un unico denominatore comune: il loro interesse. Nella seconda fattispecie, invece, la finalità perseguita è quella di creare speciali contenitori ai quali demandare la gestione di risorse pubbliche, lasciando all’interno della struttura madre solo determinate attività che, pur avendo diversa natura, hanno anche loro un denominatore comune o, meglio, una destinazione univoca: il portafoglio del Cittadino. E la prassi sembra essere sempre questa, altrimenti avrebbe un altro nome. Infatti, quando si presenta l’opportunità di privilegiare l’interesse del Cittadino si tende a ricorrere a qualsiasi espediente per far sì che, grazie ad una diversa interpretazione del medesimo concetto, tutto sia tutelato al di fuori di quella che era l’originaria finalità. Un esempio, può aiutare a chiarire il significato di questo pensiero. Con le cosiddette “privatizzazioni” l’intenzione era quella di affidare ad un soggetto privato la gestione di alcuni servizi (o la produzione di alcuni beni) affinché, grazie ad una amministrazione più efficiente rispetto a quella svolta dal settore pubblico, potesse scaturire una riduzione dei costi e, quindi, a cascata dei prezzi. Ciò avrebbe consentito ai Cittadini di avvantaggiarsi di tutti i benefici nascenti e conseguenti. E’ inutile richiamare alla memoria come sia andata a finire. Può essere sufficiente pensare alla gestione degli acquedotti pubblici affinché ogni individuo di buona volontà possa razionalmente trarre, nel suo intimo, le personali conclusioni. Quindi, grazie a questa filosofia operativa è possibile influenzare negativamente anche quella società partecipata che era stata ideata con le migliori premesse. Arrivati a questo punto della riflessione la deformazione professionale tende a chiamare in causa una simpatica storiella. L’obiettivo è quello di agevolare la comprensione di un fenomeno complesso, esplodendolo nelle sue elementari componenti, utilizzando semplici operazioni di aritmetica di base. E come tutte le favole che si rispettano, l’incipit è noto a tutti. «C’era una volta un piccolo regno dove risiedevano solo 100 anime. Una piccola comunità, molto attiva che, per effetto del loro interagire quotidiano, si era resa colpevole di produrre rifiuti. L’Amministrazione Reale, retta dal Sovrano di turno, aveva tra gli obiettivi quello di garantire il benessere dei suoi Sudditi. Venne, quindi, organizzata la raccolta dei rifiuti sul territorio del regno. Ben presto, i ragionieri della corona si accorsero che l’attività di pulizia comportava un costo pari a 1000. E poiché in un recente passato era stata emanata una legge sovrana che imponeva la copertura di questo onere al 100%, il Re deliberò che ogni Suddito avrebbe dovuto pagare una “tassa sui rifiuti” pari a 10 (ossia 1000 diviso il numero di abitanti 100)». Oggi questo “contributo” pro-capite si chiamerebbe TARES, ma poiché l’acronimo sembra indicare qualcosa che l’Amministrazione Pubblica dà, mentre in realtà prende, nella storiella si è preferito fare riferimento ad una volgare “tassa sui rifiuti”, perché di questo in fondo si tratta. Fin qui, quindi, nulla di trascendentale. La favola ha saputo rendere tutto più chiaro, semplice, lapalissiano. Ma il racconto non finisce qui, perché ogni fiaba deve avere un lieto fine. «Nel regno esisteva, in prossimità del lago, un’area che poteva rendere il territorio più fiorente, generando ulteriori risorse da destinare al benessere del popolo. Il Sovrano decise di destinare quell’area ad un mercato, mettendo a disposizione 20 “posti banco”, che potevano essere noleggiati per la vendita dei prodotti locali. L’iniziativa si prospettò un successo, ma presto ci si rese conto che anche il mercato produceva rifiuti. Poiché la fiera era ubicata nel regno, occorreva provvedervi. Sua Maestà, oculatamente consigliato dai contabili del reame, decise di estendere il contratto di pulizia anche al suolo destinato al mercato. Questa pulizia implicava un costo supplementare pari a 300 e, non potendo esimersi dall’applicare la legge sovrana di copertura al 100%, il Monarca decise che, per un principio di equità e giustizia, avrebbero dovuto farsene carico solo coloro che avevano preso a nolo i “posti banco”, perché in fin dei conti erano responsabili in prima persona della produzione di quei rifiuti specifici. Pallottoliere alla mano, emerse che ogni utilizzatore del “posto banco” doveva pagare una “tassa sui rifiuti” per 15 (dato da 300 diviso il numero dei “posti banco” 20)». A questo punto della fiaba è necessario un breve riepilogo. Per chi avesse perso il filo di Arianna, il costo totale del servizio di pulizia è pari a 1300 ripartito equamente tra i Sudditi (1000), tassati per 10 a testa, e coloro che prendevano a nolo i “posti banco” (300), tassati per 15 a testa. Ed ecco, finalmente, arrivato il lieto fine. «Dopo qualche tempo, l’attività del mercato non piacque al Sovrano perché appesantiva la burocrazia del regno. Emise un editto con il quale trasferì la gestione del mercato ad un contenitore magico appositamente creato. Decise dall’alto della sua autorità di chiamarlo “società partecipata”. All’Amministrazione Reale rimase l’obbligo di continuare a pulire l’intero territorio perché anche l’area sulla quale insisteva il mercato era di proprietà della corona e non della neonata creatura della “società partecipata”. Grazie a quella “illuminata” decisione, i Sudditi dovettero farsi carico dei costi di pulizia del territorio per 1300, che nel rispetto della legge sovrana di copertura dei costi al 100%, corrispondeva ad una “tassa sui rifiuti” pro-capite di 13 (dato da 1300 diviso il numero degli abitanti 100). Un “magico” aumento del 30% rispetto alla precedente contribuzione individuale di 10. E tutto ciò in virtù non di servizi migliori, ma grazie a quella scatola magica della “società partecipata”, nella quale le decisioni avrebbero dovuto appartenere al popolo e che, contrariamente alla generale percezione, si era tradotta in una effettiva spoliazione di attività. Da quel giorno, grazie a Sua Maestà, quei Sudditi smisero di vivere felici e contenti». Ogni decisione pubblica dovrebbe sempre ispirarsi al principio del “no taxation without representation”, per ricordare al popolo che ciò su cui un Sovrano non ha diritto di chiedere, il Cittadino ha il diritto di rifiutare. Ed è proprio in questo che consiste la vera società partecipata!
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 14 settembre 2013 con il titolo «L'opportunità di una società partecipata»

1 September 2013

Qual è l'effetto dell'indebitamento locale?

Non c'è miglior strategia per nascondere una notizia inquietante che quella di renderla pubblica, distraendo, però, i lettori con altre informazioni e/o pettegolezzi che, solitamente, rappresentano l'ultima moda del periodo estivo. Il riferimento è alla situazione debitoria dei Comuni su base nazionale, augurandomi che quella locale possa costituire una best practice, se non, addirittura, ergersi ad eccellenza sotto il profilo meritocratico della sana gestione finanziaria. La stessa Magistratura contabile mette in luce evidenti criticità che emergono dai bilanci comunali: un debito accumulato nel tempo che oggi sfiora i 62 miliardi di euro, con la conseguente media pro-capite che va a collocarsi in un intorno ristretto ai 1.100,00 euro, che sale a 1.300,00 euro se si considera anche l'impatto delle Province. L'allarme lanciato dalla Corte dei Conti investe, soprattutto, non l'entità del debito, ma la sua sostenibilità futura, il cui onere è, oggi, sempre più coperto attingendo a risorse straordinarie, pur gravando interamente sui Cittadini. Se oggi non fossimo a fare i conti con una crisi economica che drena sempre più i redditi personali, l'alternativa sarebbe costituita dalla leva fiscale. Se fosse azionata, alto sarebbe il rischio di trasformarla in un boomerang per l'Amministrazione Locale. I Cittadini, purtroppo, non partecipano alle decisioni politiche del Sindaco, limitando la manifestazione del loro pensiero nell'urna elettorale al momento del voto. Il Primo Cittadino, una volta investito del mandato, è legittimato a prendere decisioni. Queste, però, dovrebbero consapevolmente e responsabilmente rispecchiare l'interesse collettivo. Il continuo ricorso all'indebitamento per risolvere i problemi locali o per attuare investimenti non produttivi, certamente non sembra andare nella giusta direzione. I Cittadini si trovano sempre più indebitati per scelte non dipendenti dalla loro volontà e senza poterne trarre alcun beneficio. Perché non viene spiegata ai Cittadini la politica degli investimenti mettendoli anche al corrente degli oneri che, sotto forma di quota capitale e interessi, gravano sulle loro tasche? Probabilmente, perché il cosiddetto "effetto Trilussa" sarebbe svelato.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suhttp://cambiamentoorg.blogspot.com il 19 agosto 2010 con il titolo «Qual è l'effetto dell'indebitamento locale?»