25 August 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (seconda parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni - 5. Bibliografia.

(segue)

2. Parola d’ordine: globalizzazione
Nel corso degli anni, gli economisti hanno sottovalutato l’idea che ci fossero dei collegamenti tra commercio internazionale e occupazione. La teoria economica non ha messo in evidenza effetti negativi nel mercato del lavoro. Infatti, essa si basa, generalmente, su ipotesi che hanno la prospettiva di illustrare gli impatti positivi di un modello economico e queste congetture mirano, quindi, ad evitare di prendere in considerazione potenziali effetti avversi. Ad oggi, il cosiddetto modello HECHSCHER-OHLIN (“The Effects of Foreign Trade on the Distribution of Income”, Economisk Tidskrift, Volume 21, 1919; “Interregional and International Trade”, Harvard University Press, 1933) è sempre considerato un fondamentale punto di partenza per ogni analisi in materia di commercio internazionale e sugli effetti che ne derivano. L’idea alla base del modello è che il mercato del lavoro operi in regime di concorrenza perfetta e, conseguentemente, la piena occupazione è garantita. In altri termini, i settori produttivi in espansione assorbono i lavoratori licenziati da quelli in crisi. Inoltre, il modello in questione non prende in considerazione né gli effetti di breve periodo, né quelli di più ampio respiro, in quanto il processo di aggiustamento del mercato verso l’equilibrio è istantaneo. In sintesi, la riallocazione della forza lavoro è l’unico impatto che incide sul mercato del lavoro. In ogni caso, questa ipotesi presenta alcuni difetti poiché i lavoratori non sono in possesso delle medesime attitudini. Infatti, essi hanno differenti capacità e questo può richiedere tempo prima di trovare una nuova occupazione. In alcuni loro paper, gli studiosi DAVIDSON e MATUSZ (“International Trade and Labor Markets: Theory, Evidence and Policy Implication”, Upjohn Institute for Employment Research, 2004; “Trade and Turnover: Theory and Evidence”, Review of International Economics, Volume 13, n° 5, 2005; “Trade Liberalization and Compensation”, International Economic Review, Volume 47, n° 3, 2006), ipotizzando un mercato del lavoro in regime di concorrenza imperfetta, hanno dimostrato l’esistenza di un legame tra commercio internazionale e occupazione, nel senso che l’aumento degli scambi commerciali può avere riflessi sul tasso di disoccupazione. Prima di approfondire la questione, sono necessari alcuni richiami storici. Al termine della Guerra Fredda, la parola d’ordine è sembrata essere solo una: globalizzazione. Durante gli Anni ’90, il raggio di azione dell’economia mondiale si è gradualmente allungato e l’assenza di un collegamento tra commercio internazionale e occupazione ha iniziato a perdere consensi. In precedenza, i paesi sviluppati commerciavano con altre nazioni industrializzate e la produzione era, generalmente, consumata internamente o esportata. Per questo, essi avevano un sistema economico simile, non c’erano sensibili differenze salariali e le imprese nostrane non reputavano così redditizio trasferire la loro produzione in altri paesi occidentali. Da quando le barriere ideologiche sono cadute, i paesi in via di sviluppo hanno iniziato a competere con il mondo industrializzato. Grazie a salari più bassi, essi hanno calamitato ingenti investimenti. In conseguenza di costi commerciali ridotti, le imprese occidentali hanno iniziato a spostare parte della loro produzione all’estero. La concorrenza su scala planetaria ha portato sempre più imprenditori a individuare nuove opportunità nei mercati di tutto il mondo, non solo per conseguire profitti più elevati, ma soprattutto per sopravvivere nel mercato globale. Nei paesi sviluppati comunemente si ritiene che uno degli effetti negativi generati dalla globalizzazione sia rappresentato dalla disoccupazione, anche se studi empirici sembrano dimostrare l’esatto contrario. Nella realtà il mercato del lavoro opera in regime di concorrenza imperfetta e, quindi, un settore produttivo in recessione può generare, nel breve periodo, un aumento della disoccupazione. Infatti, i lavoratori disoccupati possono avere difficoltà a trovare un nuovo lavoro a causa, ad esempio, della loro età, del loro livello di istruzione ed esperienza. Per contro, nel lungo periodo, il processo di aggiustamento del mercato può portare all’incremento dell’occupazione grazie sia a politiche imprenditoriali, sia governative. DUTT et al. (“International Trade and Unemployment: Theory and Cross-national Evidence”, Journal of International Economics, Volume 78, n° 1, 2009) hanno empiricamente dimostrato che esiste un collegamento tra apertura del mercato all’esterno e disoccupazione. Gli studiosi hanno costruito un modello econometrico prendendo in considerazione variabili dummy per confermare l’apertura commerciale o meno di un paese con l’esterno. In aggiunta, il modello proposto ha incluso diversi periodi di analisi per verificare gli effetti sia di breve periodo, sia di lungo. I risultati ottenuti mettono in evidenza un aumento della disoccupazione nel breve periodo e una diminuzione nel lungo termine. Quindi, gli autori sostengono che l’apertura di un paese al commercio internazionale porta alla riduzione della disoccupazione. Il modello presentato, però, contiene alcuni limiti:
a)   in primo luogo, esso prende in considerazione diversi paesi, dividendoli in due gruppi a seconda del loro grado di apertura verso l’esterno. Quindi, non è chiaro con quale criterio la disoccupazione possa dipendere dal volume di scambi con l’estero, precisando che è anche difficile costruire un indice appropriato per misurarlo;
b)  in secondo luogo, non ci sono prove a sostegno che la riduzione della disoccupazione possa essere associata al commercio internazionale. Infatti, gli effetti positivi in termini occupazionali possono essere imputati ad adeguate politiche governative come, ad esempio, stimoli agli investimenti/consumo, assunzioni di personale nel Settore pubblico, limitazione dei flussi di immigrazione.
Parlando di globalizzazione e dei suoi effetti sull’occupazione, GÖRG (“Globalization, Offshoring and Jobs”, International Labour Organization/World Trade Organization, 2011) ha elencato una serie di ricerche empiriche riferite ai paesi sviluppati. Alcuni di questi studi hanno messo in evidenza risultati validi sia nel breve periodo, sia nel lungo. Nello specifico, ad eccezione di qualche caso isolato, come ad esempio IBSEN et al. (“Employment Growth and International Trade: A Small Open Economy Perspective”, Aarhus School of Business/Aarhus University, Working Paper n° 09-9, 2009) per la Danimarca, è emerso che il Nord America e l’Europa hanno fornito prove simili. I risultati empirici hanno confermato l’ipotesi che, nel breve periodo, un paese può registrare una riduzione del tasso di occupazione a causa del processo di aggiustamento del mercato, mentre nel lungo periodo (tre/cinque anni) alcuni lavoratori hanno la possibilità di trovare una nuova occupazione (sul tema si può consultare anche KLETZER, “Job Loss from Imports: Measuring the Costs”, Institute for International Economics, 2001). Illustrando i risultati forniti da altre ricerche, GÖRG ha argomentato che:
a) i settori che importano registrano un incremento della disoccupazione, perché distruggono posti di lavoro o, alternativamente, bassi tassi di crescita dell’occupazione;
b)  i settori che esportano, al contrario, generano un aumento del livello occupazionale, in quanto creano nuove opportunità o, alternativamente, alti tassi di crescita dell’occupazione.
In sintesi, considerando gli effetti sulla disoccupazione da parte delle importazioni e/o esportazioni sulla disoccupazione, non è così chiaro se essi dipendono unicamente dal fenomeno della globalizzazione oppure anche da altre politiche commerciali. In aggiunta, ad esempio, un elevato volume di scambi può essere indotto da maggiori vendite all’estero a causa di prodotti di successo, che richiedono, a loro volta, maggiori importazioni di materie prime. Questo volume di scambio potrebbe essere imputato a esportazioni verso alcuni paesi e importazioni da un limitato numero di altri paesi. Ciò significa che, per questi settori, potrebbe essere una questione di efficienza e non di globalizzazione. In conclusione, la relazione tra globalizzazione e occupazione è un problema serio. La teoria economica afferma che l’apertura di un paese al commercio internazione può avere considerevoli benefici in ogni paese per effetto di una vasta gamma di prodotti disponibili sul mercato. Tuttavia, anche l’occupazione è una questione di vitale importanza e, secondo KRUGMAN (“The Accidental Theorist”, W.W. Norton & Company Inc., 1998) il lavoro non deve essere considerato alla stregua di una merce, perché, grazie ad un più ampio assortimento di prodotti, un mercante può vendere diversi beni, mentre il lavoratore ha generalmente una sola occupazione. Per questi motivi, lasciare una merce invenduta potrebbe non essere profittevole per il negoziante, mentre lasciare il lavoratore senza una occupazione è una tragedia. Se si considera la globalizzazione sotto il profilo commerciale, diversi autori hanno dimostrato che le importazioni incidono negativamente sul tasso di occupazione, mentre le esportazioni agiscono in senso opposto ed il commercio internazionale influenza il livello occupazionale in due diversi modi:
a) il primo, nel breve periodo, attraverso la perdita di posti di lavoro;
b) il secondo, nel lungo periodo, attraverso la creazione di nuove opportunità lavorative.
(continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° o2/Luglio 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari? (seconda parte)»