26 March 2014

Presi per il cuneo ... fiscale!

L'Italia non perde mai l'occasione per colpire i suoi ammiratori con effetti speciali. Dopo aver sopportato per quasi un anno una gestione della res publica improntata all'invisibilità, il Governo del “Decreto del Fare” è riuscito a mettere a segno il primo e unico successo politico: ha decretato le sue dimissioni! Ha poca rilevanza se la decisione maturata sia stata imposta o voluta da pressioni provenienti dall'esterno. Il risultato è quello che gli Italiani si sono trovati sotto gli occhi da un giorno all'altro. Non hanno nemmeno avuto il tempo di riposarsi sugli allori, assaporando l'agognato Eldorado frutto del “Decreto Salva Italia”, che come d'incanto gli sono state vomitate addosso fiumi di parole dal neo Governo del comunicare. Un'efficace azione mediatica ne ha accompagnato la diffusione, per consentire al processo di stordimento un'ampia copertura del territorio. L'anestesia comunicativa presto avrà effetto e nessun dolore sarà percepito nel momento in cui le nuove politiche economiche si introdurranno nel cuneo fiscale di ciascun contribuente, facendone emergere mirabolanti potenzialità, ma nascondendo le reali conseguenze. Se da un lato, la riduzione del cuneo fiscale potrà incidere positivamente sia sui lavoratori, che potranno disporre di un salario netto superiore da poter destinare alternativamente al consumo o al risparmio, sia sulle imprese, che potranno ridurre l'onere che grava, sotto forma di costo del lavoro, sui loro bilanci, dall'altro nessuno osa sbilanciarsi affermando apertamente in che modo il taglio in questione sarà praticato. Poiché il cuneo fiscale comprende non solo le imposte che gravano sulla retribuzione, ma anche i contributi previdenziali che sono trattenuti ai fini pensionistici, il rischio è quello che a rimetterci siano i lavoratori non nell'immediato, ma nel futuro, quando saranno collocati a riposo. Se è abbastanza ovvio che la riduzione delle aliquote di imposta sul reddito produca un incremento della retribuzione netta percepita dal dipendente, è altrettanto banale comprendere che, alla luce del fabbisogno statale, questa strada difficilmente potrà essere perseguita, se non a condizione di aumentare la tassazione su altri fronti. In definitiva, non rimane altro che mettere mano ai contributi previdenziali, la cui riduzione produce effetti benefici sia sul reddito netto percepito dal lavoratore, sia sul costo del lavoro a carico delle imprese. Agendo in questa direzione tutti possono essere contenti: da un lato, i lavoratori che disporranno di uno stipendio netto superiore, dall'altro, le imprese che vedranno ridotto il costo del lavoro. Ma poi? Cosa succederà quando il lavoratore sarà prossimo alla pensione, sapendo che la stessa sarà calcolata con il metodo contributivo? Ai posteri l'ardua sentenza. Oggi, si può solo affermare che l'Italia ha deciso di voltare pagina, per scoprire che girandola è rimasta da leggere l'ultima frase: “The end!”.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 02/Febbraio 2014 con il titolo «Presi per il cuneo ... fiscale!»

15 March 2014

Io so ... quindi, non sarò!

«Io so. (... omissis ...). Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari (... omissis ...), che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero» (Il Corriere della Sera, 1974). Così scriveva Pier Paolo PASOLINI sul principale quotidiano italiano nel lontano 1974. E lo faceva in una data particolare, quasi premonitrice dei fatti e delle circostanze attuali. E' sufficiente saper leggere ed interpretare i numeri, adattandoli ad una verità nascosta che, nell'anno in corso, potrebbe avere la capacità di svelare più di uno di quei misteri che PASOLINI aveva lasciato intendere di conoscere, ma di cui non era in possesso delle prove necessarie per rivelarlo apertamente. Ricorre, infatti, quest'anno il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione, quasi a rappresentare un monito a quella generazione di quarantenni che oggi pretende (a ragione o a torto sarà la storia ad dimostrarlo ai posteri) di voler prendere in mano le redini di un Paese allo sbando, per domarlo e riportarlo sulla retta via. La presenza di un'incognita, però, non sempre è un indicatore sufficiente a segnalare l'esistenza di una soluzione. Nella maggior parte dei casi costituisce un valore da ricavare, utile per poterlo assegnare ad un parametro, che, a sua volta, si configura come la chiave di apertura di un complesso sistema di equazioni il cui risultato potrà essere indeterminato. Se poi si è in presenza di un cosiddetto "conflitto di interesse", ossia quando sussistono diverse unità che perseguono obiettivi contrastanti, allora qualunque sia l'intreccio proposto, l'unica certezza per i Cittadini è rappresentata dall'impossibilità di trovare una condivisione d'intenti che vada nella direzione di garantire e sostenere il loro benessere sociale. In politica, però, certe verità non si possono dire: potrebbero risultare controproducenti perché farebbero perdere voti e consenso. Meglio comportarsi da illusionisti e far sognare i propri elettori o fargli credere che si agirà in un modo. Questo consentirà di rendere meno dolorosa la menzogna e si potrà agire, a loro insaputa, in direzione opposta. Le idee possono essere diverse, così come i colori sono variopinti. L'esperienza lo dovrebbe aver insegnato, si spera. Per dirla con le parole di Alan FRIEDMAN, «la verità è che viviamo in una società che senza un ritorno alla crescita e una ripresa dell'occupazione rischia di essere risucchiata senza via d'uscita da un autentico incubo, in cui il nostro impoverimento e declino si spostano con una resistenza culturale al cambiamento, con il rifiuto di qualsiasi vera modernizzazione. E la disperazione rischia di degenerare fino a minare la famosa coesione sociale del Bel Paese» ("Ammazziamo il Gattopardo", Rizzoli, 2014). Un grido di allarme privo di mezzi termini, lanciato senza quei giri di parola che spesso sono utilizzati per esprimere le ragioni di una scelta nella speranza di poter incantare il Cittadino sul fatto che il vento si appresta a cambiare. Peccato, però, che l'aria che tira è rimasta la stessa. Ma era così necessario scomodare il giornalista americano per mettere di fronte il popolo a prospettive di questo tenore? Non necessariamente. Si sarebbe potuto far tesoro del monito lanciato da Enrico BERLINGUER nel 1976: «Non c'è risanamento duraturo se non si rinnova, non c'è salvezza sicura se non si cambia; dunque non si tratta solo di evitare il tracollo economico e finanziario, ma anche di avviare lo sviluppo del paese su nuove basi e per fini diversi da quelli del passato». Ma era un'altra epoca. Lo stesso periodo storico che aveva spinto Pier Paolo PASOLINI a mettere in guardia i Cittadini verso un ipotetico burattinaio di turno, abile domatore di delfini e manovratore di marionette nonché proverbiale tessitore di trame nel tirare le fila. Un "Mangiafuoco" della politica per fornire al pubblico una sua rappresentazione fisica, traendo spunto dal più famoso personaggio immaginario raccontato da Carlo COLLODI ne "Le avventure di Pinocchio". Ecco, quindi, che il cerchio sembra magicamente chiudersi. La ricerca della verità è l'anello di congiunzione di tutte le fantasticherie che nel gossip trovano terreno fertile. Per queste motivazioni, il dibattito che puntualmente anima il teatrino della politica (per rimanere in un contesto fiabesco) ed, in particolar modo, quello che fa da anteprima ad una consultazione elettorale, richiama alla memoria un classico di Akira KUROSAWA: "Rashōmon". Un cortometraggio che mette in evidenza le mille sfaccettature della verità. Sulla falsa riga di questa saga cinematografica gli attori (siano essi recitanti sul palcoscenico nazionale o nel cortile di un paesino) non sono in fondo così diversi tra di loro. Essi non osano mettere in discussione gli eventuali "misfatti" compiuti nel passato. Tutti, come d'incanto, sembrano vergini desiderose di mettere mano allo scenario che si è configurato per voler dimostrare, ad un pubblico voyeurista di quali performance acrobatiche sono, sulla carta, capaci. Invece di tappezzare le strade cittadine con i più disparati e variopinti manifesti o riempire le cronache locali con fotografie nelle pose più affascinanti ed attraenti, sarebbe più proficuo che chiunque pensi, in cuor suo, di avere in tasca la soluzione per risolvere i problemi, illustri ufficialmente al Cittadino il cosiddetto "Programma di Mandato", senza dimenticarsi, nel presentare la propria squadra ai futuri elettori, di affermare a gran voce, parafrasando Pogo (personaggio dei cartoon ideato da Walt KELLY): "Abbiamo incontrato il nemico, e siamo noi!".
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 15 marzo 2014 con il titolo «Io so ... quindi, non sarò!»

4 March 2014

The Origin of Globalization

Are the effects of 2007’s economic crisis more catastrophic than those produced by the 1930’s Great Depression? The persisting economic crisis seems to have an ancient origin or, better, more than one father. So, it is pretty hard to compare those two phenomena because they are similar only nominally and different under multiple points of view. In particular, in 1930’s, the scenario was deeply another one, the size of the crisis affected a restricted number of countries (especially the United States and European nations) and the recession arose from the industrial sector. It is for the aforementioned reasons that maybe today people prefer talking about the global crisis and not simply about the economic crisis. In Western countries, the thirties scenario came after the First World War and a “relatively” short period of expansion, while today, in the industrialized world, the context ensues from a period of about sixty years of peace, during which developed countries were able to exploit various opportunities coming from a gradual economic integration and contemporaneously building the foundations of the current crisis. Nevertheless, the issue seems to have only one loser: the industrialized world, which, for decades, improved, more or less, their welfare. In the world of today, developed countries are still struggling to way out from recession, whereas least developed economies are managing a faster growth. Hence, does it make sense of talking about global crisis yet? Generally, people tend to consider a phenomenon as negative only when it occurs in Western countries. The United States and Europe are heavily affected by negative economic growth, so public opinion argues about the economic crisis. In contrast, China and India, which are also the most populated nations, are performing high rates of growth. Hence, within these two countries the global crisis does not exist or, in the worst case, it is a weaker growth than the previous. But, this is clearly growth and not crisis! Developed countries started going into crisis since 1990’s, when the Cold War finished, the Soviet Union collapsed and the process of “westernization” of East European countries began. That was a first step towards the “Europeanization” of economy or, in other words, a sort of globalization on a European scale. But, can we state that the Cold War’s end, spawning new economic opportunities, determined the globalization process? According to David Charles LEWIS and Karl MOORE (Globalization and the Cold War: the Communist Dimension”, Management & Organizational History, Vol. 5, n° 1, 2010), globalization existed before the Cold War ended and had two targets. The former pursued by Western countries and it was market oriented. The latter chased by Communist countries and it was collectivism oriented. So, it is clear that after the Cold War ended there was only a sole way of interpreting this phenomenon and the fall of Communism was only a mean to accelerate liberalization processes, openness to trade and, consequently, globalization. However, maybe, a big push to globalization was laid ten years before, in 1980, thanks to so called “reaganomics”, that is the economic policies by Reagan, based on economic development driven by supply and not by aggregate demand as required by Keynesian economic theories.
AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 01/Gennaio 2014 con il titolo «The Origin of Globalization»