30 November 2015

Globalizzazione e disoccupazione giovanile (prima parte)

Dal punto di vista internazionale, i paesi sviluppati ed, in primis, l'Italia devono essere consapevoli che la globalizzazione è un processo continuo ed irreversibile di innovazione e crescita. Secondo l'economista americano Joseph E. STIGLITZ ("Globalisation and Its Discontents", W.W. Norton & Company, 2002) «la globalizzazione è una forza positiva che ha portato enormi vantaggi, ma per il modo in cui è stata gestita, tanti milioni di persone non ne hanno tratto alcun beneficio e moltissime altre stanno peggio di prima. La sfida che ci attende oggi è la riforma della globalizzazione, affinché non porti vantaggi soltanto ai paesi ricchi e maggiormente industrializzati, ma anche a quelli più poveri e meno sviluppati». In Italia, l'opinione generale sembra l'opposta. Infatti, la percezione è che la globalizzazione ha impoverito la condizione del paese, in quanto le imprese hanno progressivamente spostato la produzione o parte di essa all'estero, avvantaggiando quei paesi dove il costo del lavoro è più basso. Questa filosofia di pensiero, ovviamente, è dettata dalla mancanza di volontà del Paese di cambiare. In Italia, si preferisce mantenere lo status quo, evitando ogni forma di adattamento ai mutamenti in atto nel mondo circostante. Questa inazione rischia di portare il Paese a rimanere arretrato rispetto allo sviluppo del mondo, con pesanti ripercussioni negative sull'occupazione, a partire dalle giovani generazioni che, per contro, dovrebbero essere quelle più facilmente propense ad accettare il cambiamento. Alla luce di ciò, l’Italia non deve sempre cercare le cause dei suoi mali all’esterno, dando la colpa oggi alla globalizzazione e domani ad un altro fenomeno. Le cause della disoccupazione giovanile sono tutte interne al Paese ed è in questa direzione che occorre lavorare per invertire il trend negativo prima che diventi, nel breve periodo, cronico e, nel lungo periodo, irreversibile. Ma esistono alternative alla globalizzazione? La risposta è ovviamente negativa, a meno che non si accetti di ritornare alle politiche protezionistiche di qualche tempo fa. Una citazione dell'economista americano Paul KRUGMAN ("What is wrong in Japan", Nihon Keizai Shimbun, 1997) può essere utile a far comprendere le eventuali conseguenze: «Un automobilista investe un pedone, che è rimasto a terra dietro la macchina. Guarda indietro e dice: “Mi dispiace, lasciami rimediare al danno” e in retromarcia passa sopra al pedone di nuovo». La morale è che è necessario andare avanti, studiando meccanismi che consentono di convivere con la globalizzazione, sfruttando le numerose opportunità che offre. Il problema consiste nel fatto che mentre i rischi e/o gli effetti negativi sono evidenti, le opportunità sono invisibili. (continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o9/Ottobre 2015 con il titolo «Globalizzazione e disoccupazione atto primo»

31 October 2015

Che genere di Europa è stata edificata?

Non è mai stata mia intenzione prendere posizione su un argomento così delicato, sensibile e toccante come quello che, in questo momento, riguarda l’immigrazione. Più che l’esigenza di voler, a tutti costi, inflazionare ancor più i commenti rilasciati da personaggi sicuramente più autorevoli e preparati di chi scrive, tenterò di soddisfare le numerose richieste che, sul tema, mi sono pervenute. Cercherò, quindi, di fornire un modesto contributo, che mi auguro possa risultare equilibrato, sperando, nel contempo, di suscitare qualche critica costruttiva volta ad accendere un coscienzioso dibattito su una materia di così ampia portata. Per chi ha vissuto, in prima persona, la caduta del Muro di Berlino e gli eventi storico-politici che hanno accelerato lo smantellamento della cosiddetta “cortina di ferro”, cui ha fatto seguito la dissoluzione del regime in vigore in quella che, una volta, era additata come Europa dell’Est, è pacifico che la memoria resusciti pensieri e ricordi di quell’incredibile ed indimenticabile periodo, con un distinguo rispetto al fenomeno attuale. All’epoca, infatti, più che una vittoria dell’Ovest sull’Est o, in alternativa, del libero mercato sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione, si è vissuto ed affrontato un momento di euforia a braccia aperte, ben disposte a sviluppare una politica di accoglienza nei confronti dei popoli dell’Europa orientale in fuga, non da una guerra, ma da un regime che li aveva privati delle più elementari libertà fondamentali, ma anche costretti a vivere in condizioni di “povertà” rispetto alla ricchezza “drogata” dal debito dei popoli occidentali. Eppure, il ricordo è ancora molto limpido: sono indelebili le immagini di quelle “carrette del mare” stracolme all’inverosimile di persone che, dai paesi balcani affacciati sul Mediterraneo cercavano rifugio al di là delle proprie coste, così come è indimenticabile la macchina organizzativa messa in piedi per accogliere i “rifugiati europei” e la gara di solidarietà fra coloro che offrivano aiuto. Ma la storia, come sempre accade, tende ad insegnare il peggio e dimenticare l’esperienza migliore. Oggi, a fallire non è un sistema economico rispetto ad un altro, ma tutta quella cultura europea che, dal dopoguerra ad oggi, è stata costruita sul rispetto di ben determinati valori che, come d’incanto, si sono vaporizzati nell’egoistico benessere e materializzati nella “Grande Casa Comune Europea”. In altre parole, l’Europa sta dimostrando di non essere in grado di esportare quei principi culturali, solidali e umanitari che costituiscono un peculiare fattore critico di successo che le grandi potenze del pianeta non sono nemmeno in grado di immaginare, se non, come dice la parola stessa, manifestando nel peggiore dei modi la superiorità della loro forza. Che cosa è, quindi, cambiato nella cultura europea di oggi rispetto a quella dei primi Anni Novanta?

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o8/Settembre 2015 con il titolo «Che genere di Europa è stata edificata?»

21 September 2015

Il vuoto oltre il nulla

Negli ultimi mesi, l’Europa ha concentrato i propri sforzi su un solo obiettivo: mettere alle corde la Grecia per costringerla a compiere una scelta difficile di fronte ad un bivio. Abbandonare l’Europa e le sue stringenti regole in materia di bilancio pubblico oppure piegarsi di fronte alle pressanti richieste dei creditori internazionali, imponendo ulteriori sacrifici ad un popolo già provato dagli effetti prodotti dalla persistente crisi economica unitamente a quelli indotti dalle precedenti politiche di austerità. A nulla è servito il voto “di protesta”, che ha portato il partito di sinistra Syriza al governo del Paese. Nonostante i proclami sostenuti con vigore in campagna elettorale, una volta conquistato lo scettro del potere ci si è presto resi conto che i margini di manovra erano (ed ancora lo sono) palesemente ridotti. E’ l’economia che cambia il mondo e non la politica. Sono i numeri che combinati tra loro danno i risultati e non le parole, specie se private del loro più elementare ed univoco significato. Ad accorgersene, forse per primo, è stato l’ormai ex Ministro delle Finanze ellenico, il professore Yanis Varoufakis, che ha pensato di non perdere tempo e mettere nero su bianco per denunciare questa constatazione di fatto in un libro dedicato alla figlia e, quindi, a persone “non addette ai lavori” nell’affascinante contesto della scienza economica (“E’ l’economia che cambia il mondo”, Rizzoli, 2015). La vita delle persone non può essere condannata per l’eternità a compiere sacrifici, legando il loro destino ad una sterile elaborazione di formule matematiche da verificare a tutti i costi. I modelli costruiti dovrebbero consistere in basi di partenza, di approfondimento e di indagine sul comportamento delle variabili economiche e non costituire profezie che si autoavverano. Tuttavia, e di questo occorre prenderne tristemente atto, ogni forma di benessere, sia esso organizzativo, sociale o umano si sprigiona da un rigoroso rispetto di equilibri e regole di convivenza civile e non potrà mai scaturire dall’attuale disordine che regna sovrano nello scenario economico mondiale. Ciò che oggi è assente nel palcoscenico internazionale non sono gli strumenti di studio e analisi che, spesso e volentieri, sono abusati per voler dimostrare l’impossibile, ma le primitive regole del buon senso che sono resuscitate dalla classe politica solo quando è necessario individuare una via d’uscita di fronte ad un portone spalancato, facendone pagare le conseguenze ai singoli Cittadini, invocati solo quando si deve richiamarli al rispetto dei loro “doveri” e non quando occorre riconoscerne i “diritti”. Ciò che meraviglia è l’assoluta indifferenza di fronte ad un vortice che lentamente sta inghiottendo tutto, perpetuando i problemi nel tempo per legittimare la conservazione del potere da parte di chi già lo detiene.

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o7/Luglio-Agosto 2015 con il titolo «Il vuoto oltre il nulla»

31 July 2015

Non c'è Syriza che tenga

Le notizie dell’ultima ora hanno palesemente dimostrato che tutti i movimenti “rivoluzionari” in Europa sono destinati a fallire miseramente nella loro ideologia, anche se fatta di buoni propositi. Le Istituzioni finanziarie e, oltre ogni misura, la Germania hanno esternato senza mezzi termini la potenza della loro forza, riuscendo a piegare il timido tentativo del Governo ellenico di imporre una svolta alle relazioni economiche tra i diversi Partner dell’Unione Europea. Da questo comportamento, l’unico vincitore è colui che ha abbandonato la scena: l’ormai ex Ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis perché ha tolto la maschera a quella che è diventata oggi l’Unione Europea. Il suo modo di fare politica e, soprattutto, il suo approccio teorico all’economia non hanno scalfito minimamente il muro eretto dai creditori internazionali. In altre parole, tutta la vicenda ha dimostrato che non è interesse dell’Unione Europea produrre benefici per tutti, qualcuno deve soccombere od essere umiliato sulla pubblica piazza. La diatriba è riuscita a mettere a nudo una triste realtà. Non ha più senso parlare di unione tra vari Stati per perseguire un ideale comune, ma di una adesione virtuale dei vari Stati alla Germania per la tutela degli interessi di quest’ultima. Eppure gli sforzi richiesti al popolo greco non sono poi così distanti da quelli cui altri paesi aderenti all’Unione Europea saranno chiamati a compiere nel prossimo futuro. Alcuni governi, forse, non hanno ancora percepito di essere già in coda dietro la Grecia. L’attuale classe politica europea non ha ancora maturato la consapevolezza di non essere stata in grado di studiare politiche economiche efficaci a tutela dei più deboli, siano essi singoli individui oppure singoli Stati. Era più che prevedibile attendersi che l’impatto dirompente di una fase recessiva andasse a colpire le economie più fragili. Ci si poteva pensare prima, ma le priorità erano altre anche se non si è capito quali siano state. “E’ l’economia che cambia il mondo” (Rizzoli, 2015) così recita il titolo, più che mai propiziatorio, dell’ultimo libro dell’ex Ministro Varoufakis. E l’incipit di questo affascinante racconto è ancor più tranciante: “Tutti i bambini nascono nudi”. Le politiche economiche europee non hanno contribuito ad unire, ma a dividere. Ciò è accaduto perché le disuguaglianze tra i popoli si sono sempre più accentuate negli anni e dilatate a dismisura con la leva della crisi economica. E così, mentre ogni essere umano viene al mondo senza veli, quelli che vi albergano già da qualche anno non si sono ancora resi conto che di questo passo le attuali politiche europee, piene di egoismo e vuote di solidarietà, non faranno altro che privarli progressivamente di quelle poche ricchezze disponibili, facendo presagire un triste destino: “Tutti i Cittadini dell’Unione moriranno nudi” ... eccetto uno.


AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o6/Giugno 2015 con il titolo «Non c'è Syriza che tenga»

27 June 2015

Verso la crescita negativa

L'estate che si avvicina si preannuncia calda. Al di là di ogni più rosea previsione meteorologica, i mercati sembrano prepararsi a dover sopportare temperature roventi. Ciò che, tuttavia, non è ancora sufficientemente chiaro è se le aspettative di una ripresa dell'economia a regime siano solo un fuoco di paglia oppure consistano in solide basi di un miglioramento destinato a manifestare la sua tendenza nel tempo. La progressiva iniezione di liquidità, attraverso la politica monetaria espansiva portata avanti dalla Banca Centrale Europea con il quantitative easing, è vista con favore da molti, pur con qualche incognita dettata dalla prudenza. In effetti, gli interrogativi dei detrattori potrebbero presto trovare terreno fertile in qualche risposta. Il paradosso, infatti, è già alle porte. Per anni, ed in Italia questo è un dato di fatto, la gestione dell'inflazione è stata considerata la madre di tutti i mali del sistema economico. Essere riusciti, con enormi sacrifici, ad azzerare il valore di questa variabile si è rivelato un processo molto lungo e difficile. Ora, come d'incanto, i prezzi sembrano dare un segnale di risveglio. L'elemento che più di tutti preoccupa è rappresentato dall'intensità che avrà questa uscita dal letargo. Una spinta inflazionistica che, se confermata, dovrebbe impiegare pochi mesi a riportarsi su valori ritenuti accettabili dall'autorità monetaria europea e dai quali, al contrario, aveva impiegato anni a scendere verso lo zero. I mercati, dal canto loro, non sono mancati all'appello. Hanno reagito alla notizia tempestivamente, in maniera nervosa, e, soprattutto, negativamente. Se la ripresa è effettivamente iniziata, a breve anche i tassi di interesse inizieranno a reagire nella medesima direzione, con buona pace di coloro che ne predicavano i positivi effetti. L'incremento dei tassi di interesse impatterà negativamente sui corsi azionari, sulle quotazione dei titoli del debito pubblico e, ultimo ma non meno importante, sui conti dello Stato. L'aumento dell'inflazione, per contro, si riverbererà sulle pressioni sindacali, che presto faranno sentire la loro voce, sfociando in accese rivendicazioni salariali e facendo temere un autunno incandescente dopo l'estate calda dei mercati. La crescita della spesa pubblica, per l'effetto congiunto di un andamento analogo dei prezzi e dei tassi di interesse, potrebbe richiedere al Governo di mettere mano agli equilibri di bilancio attraverso la leva fiscale. Alla fine, ciò che si rischia è di deprimere ancora di più la produttività dei lavoratori che vedranno i salari ridursi, grazie all'ipotetico intervento fiscale, ed erodersi, per effetto dell'inflazione, rimangiandosi il bonus fiscale degli ottanta euro. Tutto ciò, però, avverrà "brindando" alla tanto sospirata ripresa economica. Chi ne beneficerà non è ancora chiaro, perché i lavoratori (siano essi occupati da tempo o neo assunti) potranno dover accettare di convivere con un salario nominalmente inferiore. In altre parole, il detto "guadagnare meno, lavorare tutti" non sarà più un tabù!

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o5/Maggio 2015 con il titolo «Verso la crescita negativa»

18 May 2015

Habemus legem!

E legge fu! Senza alcun ripensamento, il Capo dello Stato ha posto la sua firma, promulgando di fatto la riforma della legge elettorale. Dal "Porcellum" all'"Italicum" il passo è stato breve. Coloro che auspicavano un rinvio alle Camere hanno dovuto tristemente prendere atto della loro delusione. C'è rimasto ancora qualcuno che soggiorna nel dubbio o nella speranza? Siamo in Italia e, come tutte le cose, la diatriba si è rivelata solo ed esclusivamente un fuoco di paglia. Le parti in causa sono riuscite a conferire importanza e a litigare su un argomento che, a ragione o a torto, fa esattamente il gioco di entrambe le forze in campo. Chi ha sostenuto con convinzione il nuovo testo di legge, ovviamente non può che decantarne il sensibile passo avanti rispetto alla precedente normativa. Chi ne ha osteggiato il percorso, si dichiara insoddisfatto e pronto a mettere di nuovo mano una volta al Governo. Gli Italiani, invece, come loro abitudine, sono rimasti alla finestra ad osservare le liti di cortile che hanno accompagnato i lavori parlamentari. Che il "Porcellum" avesse qualche difetto ormai se ne erano accorti in molti, al di là dei pareri e delle sentenze sulla costituzionalità o meno del suo articolato. Che l'"Italicum" abbia qualche imperfezione è ancora da appurare. Così come era stato per il "Porcellum" a suo tempo, occorrerà testare la legge con nuove elezioni e solo dopo averne assaporato il risultato se ne potrà valutare la bontà o meno delle sue intenzioni. E' ovvio, come sempre accade, che la compagine che risulterà vincitrice in occasione della prossima consultazione elettorale ne esalterà la validità, mentre coloro che andranno a sedersi tra i banchi dell'opposizione ne contesteranno vivacemente la legittimità. Ma questo è il gioco delle parti e chiunque è consapevole che un testo di legge sulle regole elettorali può far comodo oggi alla parte avversa rispetto a quella che ha lottato per volerla. Una cosa è certa. La legge elettorale avrà sicuramente tutti i crismi della costituzionalità. Questo, però, non vuol dire che sia in grado di garantire al Paese una governabilità seria e duratura. Queste sono peculiarità che non appartengono all'immaterialità del dettato normativo, ma alla consistenza etica e morale delle persone che andranno ad occupare posizioni di responsabilità in Parlamento e nella futura compagine esecutiva. Ed i politici che saranno chiamati a deliberare sulle sorti del Bel Paese saranno scelti dagli Italiani, con il loro voto, indipendentemente da qualsivoglia testo di legge elettorale in vigore ed al di là di candidati "a posto" o imposti dai vertici di partito. L'importante è poi accettare il risultato che uscirà dalle urne e smetterla, una volta per tutte, di piagnucolare per aver scelto erroneamente il destino del proprio Paese.


AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o4/Aprile 2015 con il titolo «Habemus legem!»

26 April 2015

Public Change Management: cambiare per rimanere sé stessi

Negli ultimi anni, il processo di trasformazione che ha investito la Pubblica Amministrazione, iniziato pioneristicamente nei primi anni Novanta, sembra aver subito un sensibile rallentamento. Non ci si trova ancora in un contesto di “panic situation tale da essere costretti ad invertire la rotta, ma è abbastanza evidente che l’approccio al cambiamento imposto, a colpi di norme, dal legislatore nazionale sembra aver perso nel tempo la spinta propulsiva originaria. E’ sotto gli occhi di tutti che i risultati conseguiti sono ben lontani da quelle che, a suo tempo, erano le aspettative e, pertanto, in assenza di ulteriori motivazioni, l’euforia sta cedendo rapidamente il passo alla rassegnazione, collocando il ciclo di vita del rinnovamento nella fase di declino. Le cause che hanno fatto imboccare al processo di cambiamento un percorso involutivo non si devono cercare nei profondi mutamenti subiti dallo scenario di riferimento nazionale ed internazionale. Il principale movente del fallimento è ubicato all’interno della stessa Pubblica Amministrazione e deve essere imputato alle forti resistenze che si sono scatenate di fronte alle incognite indotte dai ventilati processi di riorganizzazione. La storia riporta all’attualità un suggerimento di Niccolò MACHIAVELLI a Lorenzo DE MEDICI: «Si dovrebbe ricordare che non c’è niente di più difficile da programmare, di più dubbio successo e più pericoloso da compiere che dare avvio ai cambiamenti nella costituzione di uno Stato. L’innovatore si rende nemico di tutti coloro che prosperavano sotto il vecchio ordine e solo un tiepido sostegno proviene da coloro che prospererebbero sotto quello nuovo» (“Il Principe”, 1513). L’ostilità manifestata da parte di coloro che il MACHIAVELLI include tra quelli “che prosperavano sotto il vecchio ordine” deriva dal fatto che questi personaggi temono una perdita di potere e un calo di prestigio all’interno dell’Organizzazione nella quale operano, preferendo restare attaccati a vecchi schemi di gestione, già collaudati “con successo” e sicuramente più familiari. In questo caso, la meditazione è stimolata dalla preistoria e non dagli eventi meno recenti. Se le trasformazioni sono pretese da forze esterne all’Ente (ad esempio, il legislatore nazionale oppure un organismo sovranazionale), allora solo attraverso la ricerca di nuovi adattamenti sarà possibile garantirne la sopravvivenza, mentre la resistenza porterà inevitabilmente ad un processo di accumulazione di cambiamenti, generatore di risultati sempre più imprevedibili e foriero di situazioni che si collocano nell’alveo del caos organizzativo. Alcuni Enti Pubblici coraggiosi, con una classe dirigente/amministrativa propensa ad accogliere la sfida del rinnovamento, hanno fatto leva sui modelli lean thinking per ottenere:
  • da un lato, strutture organizzative più flessibili ed elastiche, facilmente gestibili e adattabili a qualsiasi evenienza;
  • dall’altro, risultati precedentemente insperati o considerati ingiustamente dannosi per la sopravvivenza della stessa architettura organizzativa.
Operando in questa direzione, Amministratori/Dirigenti particolarmente attenti, privi di miopia strategica, con una missione ben precisa, una visione lungimirante e, soprattutto, “open minded”, hanno conseguito riconoscimenti inaspettati:
  • dall’ambiente esterno, in termini di soddisfazione dei bisogni della Comunità di riferimento;
  • dall’ambiente interno, in termini di migliore benessere organizzativo, che si è tradotto nella gratificazione di mansioni che in precedenza hanno caratterizzato i vari ruoli lavorativi.
Per queste motivazioni, quando si approfondiscono tematiche innovative in materia di Pubblica Amministrazione è necessario, ma soprattutto opportuno, prestare particolare attenzione sia al contesto nel quale le riflessioni formulate andranno ad impattare, sia la sensibilità che l’ambiente circostante presenta nei confronti del cambiamento. Da quando l’orientamento generale è diventato quello di avvicinare il modello di gestione pubblica a quello in essere nell’azienda privata, la dottrina disponibile sul mercato è stata letteralmente presa d’assalto. La bibliografia esistente in materia ha costituito, così, la principale fonte del sapere dalla quale poter apprendere, in breve tempo, input informativi capaci di fornire risposte tempestive a problemi che stavano assumendo dimensioni preoccupanti. La letteratura, tuttavia, pur avendo il pregio di mettere a disposizione i risultati di precedenti ricerche, non rende di pubblico dominio la formula magica da utilizzare per ottenere un immediato successo, ma tende ad incoraggiare il pensiero creativo, per plasmare a nuove esigenze ciò che la scienza ha già scoperto. In altre parole, per accelerare i tempi, molte Amministrazioni Pubbliche sono partite da metà strada, senza farsi troppe domande su quale accorgimento adottare per realizzare i propri target, per rendersi successivamente conto, con ingenua incredulità, che l’unico distributore di carburante era collocato all’inizio del percorso. Infatti, nel perseguire una strategia di trasformazione non sempre può essere utile prendere a prestito qualcosa dalle aziende private. Les METCALFE e Sue RICHARDS (“Improving Public Management”, 1990) avevano già sottolineato come «è troppo facile per i critici delle prestazioni delle aziende pubbliche saltare alle arbitrarie conclusioni che siano disponibili delle soluzioni già pronte del settore privato». Qualunque lezione si possa apprendere dal privato, le specificità tipiche di governo dell’Organizzazione Pubblica comporteranno sempre approcci differenti, richiedendo sempre un incessante impegno nello sviluppo di nuovi modelli gestionali. Le fasi di ricerca e sperimentazione sono sempre necessarie perché solo attraverso l’applicazione di teorie e concetti sviluppati sul campo si potrà riuscire a vestire nel modo più idoneo ogni Struttura Pubblica. L’errore di fondo che fino ad oggi è stato sempre commesso consiste in quello che ha individuato nel processo di cambiamento il sorgere di un problema, anziché lo sfruttamento di un’opportunità. Per questo, l’approccio al cambiamento è stato erroneamente affrontato cercando di utilizzare soluzioni esistenti per risolvere questioni nuove, piuttosto che sviluppare alternative per sfruttare un eventuale vantaggio competitivo. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti!

References
- MACHIAVELLI Niccolò, “Il Principe”, 1513;
- METCALFE Les & RICHARD Sue, “Improving Public Management”, Sage, 1990.

AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 02/Febbraio 2015 con il titolo «Public Change Management: cambiare per rimanere sé stessi»

8 April 2015

Disoccupazione giovanile? Ci risiamo ...

Come volevasi dimostrare! Con queste tre parole, ai tempi delle scuole superiori, si usava concludere quei problemi di geometria che si proponevano di dimostrare, in modo scientifico, ciò che a prima vista sembrava "ovvio". Invece, di "ovvio" non c'era proprio niente! Se si voleva argomentare in merito alla validità di una ben determinata affermazione, era necessario accompagnarla da una minuziosa e dettagliata dimostrazione della tesi sostenuta, partendo dalle poche ipotesi di cui si disponeva. Una volta, poi, riusciti nell'ardua impresa, spesso dopo giorni di tentativi assurdi, ci si rendeva conto che, effettivamente, la realtà non albergava nella "ovvietà", altrimenti chiunque avrebbe potuto, nel corso della sua vita, lanciarsi nella propaganda di postulati, ossia di proprietà che non necessitano di alcuna dimostrazione, in quanto ritenute vere "per definizione". Oggi, la politica ci ha abituato a sopportare slogan ad effetto, capaci di convincere anche il più testardo Cittadino, tralasciando ipotesi che, spesso, rendono quell'annuncio privo di qualsiasi sostenibilità futura, generando così risultati che si dirigono, tristemente, nella direzione opposta a quella prospettata. Le conseguenze sono talmente disastrose che il concetto iniziale di "come volevasi dimostrare" ha, paradossalmente, lo stesso significato (ma opposto) rispetto all'obiettivo raggiunto durante la dimostrazione di un teorema. E' per queste ovvie (qui nel vero significato del termine) ragioni che, in Italia, qualsiasi tentativo mirato alla risoluzione di una questione, ha la capacità di contribuire ad ampliare le dimensioni del problema anziché risolverlo. Non occorre fornire elaborate dimostrazioni scientifiche sulla validità delle politiche adottate, sarebbe sufficiente partorire qualcosa che non solo sia di buon senso, ma ... abbia senso. L'ormai famoso "bonus fiscale", ad esempio, non ha prodotto gli effetti desiderati: non ha incentivato i consumi e, conseguentemente, non ha contribuito al rilancio dell'economia ed, in ultima analisi, alla riduzione della disoccupazione, con particolare riferimento a quella giovanile. Gli ultimi dati provvisori, resi pubblici dall'ISTAT, parlano chiaro: a febbraio la disoccupazione giovanile (ma anche quella complessiva) è tornata a salire, raggiungendo un picco del 42,7%. Forse, il problema era un altro oppure, geometricamente parlando, le ipotesi di base per risolverlo erano sbagliate e non utili per dimostrare la tesi. L'importante però è continuare a stordire il popolo con discorsi logorroici, usando parole ad effetto capaci di far dimenticare il passato e spostare l'ago dell'attenzione su un ipotetico futuro, dimenticando che viviamo nel presente. Perché se oggi ci siamo, un domani non vorremo dire ... ci risiamo! E se oggi nulla è cambiato rispetto al passato è perché nulla cambierà in futuro rispetto ad oggi. E' un dato di fatto: come volevasi dimostrare!


AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o3/Marzo 2015 con il titolo «Disoccupazione giovanile? Ci risiamo ...»

21 March 2015

Alleggerimento monetario per chi?

La missione “Qe” è iniziata! Con l’operazione di alleggerimento quantitativo, il cosiddetto “quantitative easing” (“Qe”) secondo la terminologia anglosassone, la Banca Centrale Europea si prefigge l’ambizioso target di uscire dalla recessione e, nello specifico, dalla deflazione, sperando di riportare la crescita dei prezzi dall’area negativa ad un più “normale” due per cento annuo. L’effetto primario era scontato e pare ampiamente realizzato: una riduzione del rendimento dei titoli di Stato. Occorre però sgomberare il campo dalle illusioni. Il calo dei tassi conseguenti all’operazione di acquisto massiccio da parte delle Banche Centrali non corrisponde ad una migliore performance della situazione economica nazionale, ma solo ed esclusivamente ad un aumento del prezzo cui sono quotati i bond governativi per effetto di un parallelo incremento della loro domanda sul mercato. In altre parole, tassi di interessi più bassi sono solo il frutto di una sensazione e non il risultato di un dato di fatto. E’ come aver iniettato morfina nel corpo del sistema economico. Potrà sembrare che la situazione sia in via di miglioramento, mentre la congiuntura reale rimane negativa. Non serve drogare il mercato per farlo apparire profondamente migliore di quello che, al contrario, rispecchia la realtà. Se la riduzione virtuale dei tassi di interesse può essere tradotto, sulla carta, in un minore onere finanziario sui titoli del debito pubblico, è importante comprendere come sarà destinato il corrispondente risparmio di spesa. E questo può seguire due strade differenti. Da un lato, può contribuire a ridurre lo stock di titoli in circolazione, attraverso un loro rimborso anticipato (che, alle quotazioni attuali, è poco appetibile ... bisognava pensarci qualche anno fa, quando tassi di interesse bassi erano affiancati a quotazioni depresse). Dall’altro, può spingere il Governo a finanziare altre spese, con il rischio che, in futuro, la dimensione del debito pubblico sia aumentata a dismisura, vanificando il temporaneo beneficio del “quantitative easing”. E’ dal lontano 1996 che i tassi di interesse, salvo una breve parentesi, sono andati riducendosi, eppure nessun beneficio ha fatto seguito. Anzi, la spesa pubblica è aumentata, così come l’entità del debito pubblico. Ed i risultati raggiunti sono, oggi, sotto gli occhi di tutti! All’epoca non c’era lo strumento dell’alleggerimento quantitativo messo in campo dalla Banca Centrale Europea, oggi esiste. Servirà a qualcosa oppure si tradurrà nel classico “buco nell’acqua” in puro stile italiano? L’augurio è che allo strumento dell’alleggerimento quantitativo non faccia seguito un analogo alleggerimento del portafoglio delle famiglie italiane, costrette da sempre a pagare gli errori di decisioni sbagliate o di risultati contrari a quelle che erano le più rosee aspettative.

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o2/Febbraio 2015 con il titolo «Alleggerimento monetario per chi?»

7 February 2015

Capo dello ... "stato sereno"

Come più volte promesso in passato, non c'era alcuna ragione per preoccuparsi. E così è stato! In men che non si dica, il Parlamento in seduta comune ha eletto, alla quarta votazione, il dodicesimo Presidente della Repubblica. E' stata sufficiente la maggioranza assoluta, che ha, comunque, sfiorato i due terzi di preferenze. Tutto ciò è avvenuto sotto l'abile guida e la spinta del Primo Ministro, che, dapprima, ha messo in riga tutti i suoi alleati (di partito e di governo) e, poi, ha inculcato loro l'idea che il nominativo avanzato sarebbe stato il solo in grado di garantire agli Italiani di raggiungere quella serenità perduta da tempo. A giochi fatti, chi può dargli torto? "La legge del più forte è sempre la migliore", così recita un detto popolare. E finché i risultati rispettano, per filo e per segno, le previsioni, nulla può essere sottoposto a discussioni di lana caprina sul sesso degli angeli. Sulla bontà, competenza e serietà del candidato suggerito, nessuna obiezione. Inutili sono quei commenti che, in un batti e baleno, sono stati vomitati sui social forum che, a pappagallo, hanno continuano a ripetere che "Mattarella non è il mio Presidente, perché non è stato eletto dal popolo". Se è per questo, non lo erano neppure i precedenti, dal primo all'ultimo, perché la vigente Carta Costituzionale demanda l'elezione del Capo dello Stato al Parlamento in seduta comune e non ad una consultazione elettorale e, men che meno, ai social forum. Si può avere fiducia o meno in una persona, ma occorre anche saper accettare le risultanze delle regole fissate dal gioco. E questo modus operandi, che piaccia o no, è stato rispettato alla lettera. In un contesto socio/economico come quello attuale, una figura forte al Colle potrebbe essere quello che serve al Paese per evitare "strappi" di sorta alle vigenti regole democratiche. Per queste ovvie ragioni, l'aver portato un giudice della Consulta all'apice dello Stato repubblicano non può essere altro che un evidente manifestazione di garanzia. In primo luogo, come garante e sapiente interprete delle norme che gli saranno sottoposte per la promulgazione dal Parlamento. In secondo luogo, come attento vigilante sul rispetto di una legge fondamentale che può essere migliorata, ma non stravolta a seconda dei "pruriti di palazzo". La maggiore attenzione alle leggi licenziate dall'Assemblea legislativa è, quindi, assicurato. Sarebbe spiacevole, infatti, vedere la Corte Costituzionale dichiarare incostituzionale una norma promulgata da chi, prima dell'attuale carica, copriva un seggio in seno alla stessa. Sarà come sottoporre una legge ad un doppio esame di costituzionalità. Per questo, oggi, è forse il caso di dirlo agli Italiani, a voce alta e senza equivoci di sorta: "State sereni!".

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o1/Gennaio 2015 con il titolo «Capo dello ... "stato sereno"»