26 April 2015

Public Change Management: cambiare per rimanere sé stessi

Negli ultimi anni, il processo di trasformazione che ha investito la Pubblica Amministrazione, iniziato pioneristicamente nei primi anni Novanta, sembra aver subito un sensibile rallentamento. Non ci si trova ancora in un contesto di “panic situation tale da essere costretti ad invertire la rotta, ma è abbastanza evidente che l’approccio al cambiamento imposto, a colpi di norme, dal legislatore nazionale sembra aver perso nel tempo la spinta propulsiva originaria. E’ sotto gli occhi di tutti che i risultati conseguiti sono ben lontani da quelle che, a suo tempo, erano le aspettative e, pertanto, in assenza di ulteriori motivazioni, l’euforia sta cedendo rapidamente il passo alla rassegnazione, collocando il ciclo di vita del rinnovamento nella fase di declino. Le cause che hanno fatto imboccare al processo di cambiamento un percorso involutivo non si devono cercare nei profondi mutamenti subiti dallo scenario di riferimento nazionale ed internazionale. Il principale movente del fallimento è ubicato all’interno della stessa Pubblica Amministrazione e deve essere imputato alle forti resistenze che si sono scatenate di fronte alle incognite indotte dai ventilati processi di riorganizzazione. La storia riporta all’attualità un suggerimento di Niccolò MACHIAVELLI a Lorenzo DE MEDICI: «Si dovrebbe ricordare che non c’è niente di più difficile da programmare, di più dubbio successo e più pericoloso da compiere che dare avvio ai cambiamenti nella costituzione di uno Stato. L’innovatore si rende nemico di tutti coloro che prosperavano sotto il vecchio ordine e solo un tiepido sostegno proviene da coloro che prospererebbero sotto quello nuovo» (“Il Principe”, 1513). L’ostilità manifestata da parte di coloro che il MACHIAVELLI include tra quelli “che prosperavano sotto il vecchio ordine” deriva dal fatto che questi personaggi temono una perdita di potere e un calo di prestigio all’interno dell’Organizzazione nella quale operano, preferendo restare attaccati a vecchi schemi di gestione, già collaudati “con successo” e sicuramente più familiari. In questo caso, la meditazione è stimolata dalla preistoria e non dagli eventi meno recenti. Se le trasformazioni sono pretese da forze esterne all’Ente (ad esempio, il legislatore nazionale oppure un organismo sovranazionale), allora solo attraverso la ricerca di nuovi adattamenti sarà possibile garantirne la sopravvivenza, mentre la resistenza porterà inevitabilmente ad un processo di accumulazione di cambiamenti, generatore di risultati sempre più imprevedibili e foriero di situazioni che si collocano nell’alveo del caos organizzativo. Alcuni Enti Pubblici coraggiosi, con una classe dirigente/amministrativa propensa ad accogliere la sfida del rinnovamento, hanno fatto leva sui modelli lean thinking per ottenere:
  • da un lato, strutture organizzative più flessibili ed elastiche, facilmente gestibili e adattabili a qualsiasi evenienza;
  • dall’altro, risultati precedentemente insperati o considerati ingiustamente dannosi per la sopravvivenza della stessa architettura organizzativa.
Operando in questa direzione, Amministratori/Dirigenti particolarmente attenti, privi di miopia strategica, con una missione ben precisa, una visione lungimirante e, soprattutto, “open minded”, hanno conseguito riconoscimenti inaspettati:
  • dall’ambiente esterno, in termini di soddisfazione dei bisogni della Comunità di riferimento;
  • dall’ambiente interno, in termini di migliore benessere organizzativo, che si è tradotto nella gratificazione di mansioni che in precedenza hanno caratterizzato i vari ruoli lavorativi.
Per queste motivazioni, quando si approfondiscono tematiche innovative in materia di Pubblica Amministrazione è necessario, ma soprattutto opportuno, prestare particolare attenzione sia al contesto nel quale le riflessioni formulate andranno ad impattare, sia la sensibilità che l’ambiente circostante presenta nei confronti del cambiamento. Da quando l’orientamento generale è diventato quello di avvicinare il modello di gestione pubblica a quello in essere nell’azienda privata, la dottrina disponibile sul mercato è stata letteralmente presa d’assalto. La bibliografia esistente in materia ha costituito, così, la principale fonte del sapere dalla quale poter apprendere, in breve tempo, input informativi capaci di fornire risposte tempestive a problemi che stavano assumendo dimensioni preoccupanti. La letteratura, tuttavia, pur avendo il pregio di mettere a disposizione i risultati di precedenti ricerche, non rende di pubblico dominio la formula magica da utilizzare per ottenere un immediato successo, ma tende ad incoraggiare il pensiero creativo, per plasmare a nuove esigenze ciò che la scienza ha già scoperto. In altre parole, per accelerare i tempi, molte Amministrazioni Pubbliche sono partite da metà strada, senza farsi troppe domande su quale accorgimento adottare per realizzare i propri target, per rendersi successivamente conto, con ingenua incredulità, che l’unico distributore di carburante era collocato all’inizio del percorso. Infatti, nel perseguire una strategia di trasformazione non sempre può essere utile prendere a prestito qualcosa dalle aziende private. Les METCALFE e Sue RICHARDS (“Improving Public Management”, 1990) avevano già sottolineato come «è troppo facile per i critici delle prestazioni delle aziende pubbliche saltare alle arbitrarie conclusioni che siano disponibili delle soluzioni già pronte del settore privato». Qualunque lezione si possa apprendere dal privato, le specificità tipiche di governo dell’Organizzazione Pubblica comporteranno sempre approcci differenti, richiedendo sempre un incessante impegno nello sviluppo di nuovi modelli gestionali. Le fasi di ricerca e sperimentazione sono sempre necessarie perché solo attraverso l’applicazione di teorie e concetti sviluppati sul campo si potrà riuscire a vestire nel modo più idoneo ogni Struttura Pubblica. L’errore di fondo che fino ad oggi è stato sempre commesso consiste in quello che ha individuato nel processo di cambiamento il sorgere di un problema, anziché lo sfruttamento di un’opportunità. Per questo, l’approccio al cambiamento è stato erroneamente affrontato cercando di utilizzare soluzioni esistenti per risolvere questioni nuove, piuttosto che sviluppare alternative per sfruttare un eventuale vantaggio competitivo. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti!

References
- MACHIAVELLI Niccolò, “Il Principe”, 1513;
- METCALFE Les & RICHARD Sue, “Improving Public Management”, Sage, 1990.

AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 02/Febbraio 2015 con il titolo «Public Change Management: cambiare per rimanere sé stessi»

8 April 2015

Disoccupazione giovanile? Ci risiamo ...

Come volevasi dimostrare! Con queste tre parole, ai tempi delle scuole superiori, si usava concludere quei problemi di geometria che si proponevano di dimostrare, in modo scientifico, ciò che a prima vista sembrava "ovvio". Invece, di "ovvio" non c'era proprio niente! Se si voleva argomentare in merito alla validità di una ben determinata affermazione, era necessario accompagnarla da una minuziosa e dettagliata dimostrazione della tesi sostenuta, partendo dalle poche ipotesi di cui si disponeva. Una volta, poi, riusciti nell'ardua impresa, spesso dopo giorni di tentativi assurdi, ci si rendeva conto che, effettivamente, la realtà non albergava nella "ovvietà", altrimenti chiunque avrebbe potuto, nel corso della sua vita, lanciarsi nella propaganda di postulati, ossia di proprietà che non necessitano di alcuna dimostrazione, in quanto ritenute vere "per definizione". Oggi, la politica ci ha abituato a sopportare slogan ad effetto, capaci di convincere anche il più testardo Cittadino, tralasciando ipotesi che, spesso, rendono quell'annuncio privo di qualsiasi sostenibilità futura, generando così risultati che si dirigono, tristemente, nella direzione opposta a quella prospettata. Le conseguenze sono talmente disastrose che il concetto iniziale di "come volevasi dimostrare" ha, paradossalmente, lo stesso significato (ma opposto) rispetto all'obiettivo raggiunto durante la dimostrazione di un teorema. E' per queste ovvie (qui nel vero significato del termine) ragioni che, in Italia, qualsiasi tentativo mirato alla risoluzione di una questione, ha la capacità di contribuire ad ampliare le dimensioni del problema anziché risolverlo. Non occorre fornire elaborate dimostrazioni scientifiche sulla validità delle politiche adottate, sarebbe sufficiente partorire qualcosa che non solo sia di buon senso, ma ... abbia senso. L'ormai famoso "bonus fiscale", ad esempio, non ha prodotto gli effetti desiderati: non ha incentivato i consumi e, conseguentemente, non ha contribuito al rilancio dell'economia ed, in ultima analisi, alla riduzione della disoccupazione, con particolare riferimento a quella giovanile. Gli ultimi dati provvisori, resi pubblici dall'ISTAT, parlano chiaro: a febbraio la disoccupazione giovanile (ma anche quella complessiva) è tornata a salire, raggiungendo un picco del 42,7%. Forse, il problema era un altro oppure, geometricamente parlando, le ipotesi di base per risolverlo erano sbagliate e non utili per dimostrare la tesi. L'importante però è continuare a stordire il popolo con discorsi logorroici, usando parole ad effetto capaci di far dimenticare il passato e spostare l'ago dell'attenzione su un ipotetico futuro, dimenticando che viviamo nel presente. Perché se oggi ci siamo, un domani non vorremo dire ... ci risiamo! E se oggi nulla è cambiato rispetto al passato è perché nulla cambierà in futuro rispetto ad oggi. E' un dato di fatto: come volevasi dimostrare!


AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o3/Marzo 2015 con il titolo «Disoccupazione giovanile? Ci risiamo ...»