12 November 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (terza parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni.

(segue)

3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni?
Da un punto di vista generale, la globalizzazione può avere un impatto positivo sugli scambi grazie ad un maggiore assortimento di merci/prodotti (variety of goods) oltre, ovviamente, a nuove opportunità di business. Una di queste è rappresentata dall’offshoring, che consente alle imprese di spostare parte della loro attività all’estero in quanto più conveniente in termini di costi di produzione. In particolare, i paesi poveri hanno un vantaggio comparativo nel mercato del lavoro ed il loro settore industriale è prevalentemente labour intensive, ossia caratterizzato da un massiccio utilizzo di manodopera. Alla luce questa breve premessa, nei paesi industrializzati l’offshoring interessa da vicino, in linea di principio, i lavoratori non qualificati (unskilled workers) a causa dei salari più bassi esistenti nei paesi meno sviluppati. E’ questa una delle ragioni per cui si ritiene che l’offshoring generi effetti negativi sull’occupazione, mentre, in realtà, potrebbe anche impattare positivamente nei settori che usano forza lavoro qualificata. In altre parole, per valutarne la bontà, si dovrebbe considerare l’effetto netto sul livello occupazionale. Sotto il profilo teorico, appare ovvio come il trasferimento di un processo produttivo in un paese straniero provochi un aumento della disoccupazione. Questo risultato, però, deve essere analizzato sia nel breve periodo, sia nel lungo. Nel primo caso, quando un lavoratore perde il lavoro, non è detto che ne trovi immediatamente un altro, mentre nell’altra ipotesi potrebbe essere assunto in un settore in espansione. Da un’altra angolazione, un paese che trasferisce parzialmente la produzione all’estero può concentrarsi su quella parte che mantiene all’interno dei confini. Quindi, la specializzazione può portare effetti positivi in termini sia di  produttività del lavoro, sia di efficienza produttiva. Una maggiore produttività abbatte i costi unitari di produzione e, se le imprese riducono anche i prezzi, è possibile incrementare le vendite e, a cascata, anche l’occupazione. In definitiva, l’offshoring genera effetti diretti e indiretti Gli effetti diretti portano a:
a) ridurre l’occupazione per quella parte di produzione trasferita all’estero;
b) aumentare l’occupazione per quella parte mantenuta sul mercato domestico.
Gli effetti indiretti consistono:
a) nella fornitura di beni/servizi a costi più bassi rispetto a quelli di altri settori, con conseguente espansione del loro business e aumento di occupazione;
b)  nella riduzione dei prezzi, consentendo di incrementare i consumi e, conseguentemente, la domanda interna, la produzione e l’occupazione.
Quindi, l’impatto finale sull’occupazione dipende sia dal cosiddetto “effetto sostituzione” (generato dall’allocazione di forza lavoro), sia dall’altrettanto noto “effetto reddito” (indotto da economie di scala). Una citazione del Premio Nobel americano Paul KRUGMAN può aiutare a comprendere meglio l’idea generale: «Dal 1970 a oggi la produzione nell’industria manifatturiera è grosso modo raddoppiata; ma, a causa dell’aumento di produttività, l’occupazione è leggermente diminuita. Anche nel campo della fornitura di servizi la produzione è quasi raddoppiata, ma la produttività è aumentata di poco, mentre la forza lavoro impiegata è cresciuta del 90%. Globalmente nell’economia americana si sono creati più di 45 milioni di posti di lavoro» (“The Accidental Theorist”, W. W. Norton & Company Inc., 1998). L’economista tedesco Holger GÖRG (“Globalization, Offshoring and Jobs”, International Labour Organization/World Trade Organization, 2011), prendendo in considerazione i risultati di diverse ricerche, ha confermato il punto di vista teorico. In altri termini, nel breve periodo l’offshoring provoca un aumento della disoccupazione a causa del trasferimento all’estero della produzione di quei settori che utilizzano intensamente manodopera, mentre nel lungo periodo la disoccupazione si contrae in quanto i lavoratori hanno la possibilità di essere riassunti grazie a nuove opportunità lavorative. Inoltre, se si verificano anche gli effetti indiretti l’occupazione può crescere ulteriormente. Gli studiosi Mary AMITI and Shang-Jin WEI (“Fear of Service Outsourcing: Is it Justified?”, Economic Policy, Vol. 20, n° 42, 2006) hanno, però, sostenuto la necessità che un’analisi empirica debba prendere in considerazione non solo un periodo di tempo più esteso, ma anche diversi settori produttivi (sia in espansione, sia in recessione), altrimenti il rischio è quello di non trovare robusti supporti a sostegno della tesi sugli effetti generati dall’offshoring. In ogni caso, GÖRG ha preso in considerazione diversi lavori pubblicati sull’argomento ed i risultati empirici sembrano confermare i positivi effetti in termini occupazionali dell’offshoring, anche se la ricerca si è limitata ad un orizzonte temporale ristretto. Per questo motivo, non sempre è stato possibile esaminare gli effetti nel breve e nel lungo periodo. In aggiunta, nel corso degli anni, la tecnologia ed i trasporti sono cambiati sensibilmente, al pari delle preferenze dei consumatori. Anche queste variabili, possono avere riflessi positivi o di segno contrario sull’occupazione oltre ad essere utili per spiegare potenziali collegamenti con l’offshoring. Infatti, se in passato la maggior parte dei servizi non erano oggetto di scambio, oggi possono essere commercializzati grazie alla tecnologia. Analizzando l’impatto dei servizi sull’occupazione, Rosario CRINÒ (“Employment Effects of Service Offshoring: Evidence from Matched Firms”, Economic Letters, Vol. 117,  n° 2, 2010) ha sottolineato come gli effetti sull’occupazione per i lavoratori non qualificati non siano rilevanti, mentre sono positivi per quelli altamente qualificati, grazie alla loro specializzazione. Considerando, invece, l’impatto della tecnologia, Ann HARRISON e Margaret McMILLAN (“Offshoring Jobs? Multinationals and U.S. Manufacturing Employment”, The Review of Economics and Statistics, Vol. 93,  n° 3, 2011) hanno messo in evidenza come la riduzione dell’occupazione nelle multinazionali americane sia stata causata dalla tecnologia, che ha sostituito i lavoratori, e non dall’offshoring. Per valutare l’impatto dell’offshoring su occupazione e salari nel settore manifatturiero, i due ricercatori hanno scoperto che i lavoratori:
a) nei paesi a basso reddito sono un sostituto degli impiegati americani. Quindi, se l’occupazione nei paesi in via di sviluppo aumenta, i salari negli Stati Uniti si riducono al pari di quanto avviene per l’occupazione;
b) nei paesi ad alto reddito hanno, al contrario, un effetto positivo sull’occupazione americana. Quindi, se i salari in questi paesi crescono, l’occupazione americana aumenta.
Inoltre, Robert C. FEENSTRA e Gordon H. HANSON (“The impact of Outsourcing and High Technology Capital on Wages: Estimates for the United States 1979-1990”, Quarterly Journal of Economics, 1999) hanno esplorato l’impatto dell’offshoring e della tecnologia sui salari americani. Poiché la tecnologia incide sui prezzi di produzione, una riduzione dell’occupazione può dipendere sia dallo spostamento della produzione all’estero, sia dalla sostituzione dei lavoratori con la tecnologia. Lo studio mostra che sia la tecnologia, sia l’offshoring incidono sui salari positivamente, anche se il contributo fornito dalla tecnologia è superiore a quello dell’offshoring. E’ da precisare che i due ricercatori hanno preso in considerazione la tecnologia in termini di spesa, anche se questa unità di misura può essere non appropriata. Infatti, una spesa in tecnologia più alta significa che il costo è aumentato in termini assoluti, ma non prova che il livello della tecnologia è migliorato. Altri autori (nello specifico, David HUMMELS, Rasmus JØRGENSEN, Jacob MUNCH and Chong XIANG, “The Wage Effects of Offshoring: Evidence from Danish Market Worker-Firm Data”, Working Paper, 2012), utilizzando informazioni del mercato danese, hanno confrontato gli effetti sui salari indotti dall’offshoring e dalle esportazioni. In particolare, operando una divisione tra lavoratori qualificati e non qualificati, gli studiosi hanno evidenziato che:
a)  l’export porta ad un incremento occupazione per entrambe le categorie di lavoratori;
b)  l’offshoring genera una riduzione dei lavoratori non qualificati e un incremento di quelli qualificati.
Riepilogando quanto finora esposto emerge che gli studiosi tendono spesso a considerare l’offshoring solo in termini di posti di lavoro persi o, alternativamente, a prendere in considerazione gli effetti negativi. Essi hanno associato l’offshoring al tasso di disoccupazione nei settori che utilizzano lavoratori non qualificati, esaminando come l’impatto possa influenzare produttività, produzione, costi, prezzi, consumo e, in ultima analisi, salari. Tuttavia, i lavori oggetto di interesse in questa ricerca hanno tralasciato alcune variabili economiche che possono influenzare i salari:
a)   profitti;
b)   istruzione;
c)    immigrazione;
d)   politiche governative;
che, mutatis mutandis, insieme agli effetti dell’offshoring possono bilanciare le conseguenze negative sui salari o contribuire a peggiorarle. In primo luogo, infatti, l’offshoring consente alle aziende nostrane di ridurre il costo del lavoro non qualificato e aumentare la produttività di quello qualificato. Grazie a questa combinazione, le imprese possono conseguire profitti più elevati, che possono essere alternativamente usati dagli imprenditori per:
a) remunerare gli azionisti, senza alcun effetto diretto su occupazione e salari;
b) aumentare l’occupazione, al fine di incrementare la produzione;
c) erogare un salario premio ai dipendenti per effetto dell’aumentata produttività, con effetti positivi sui salari;
d) mixare tra loro le diverse alternative.
In definitiva, solamente gli ultimi due casi possono registrare benefici sui salari. In secondo luogo, la teoria economica tende a collegare l’elevato livello di istruzione con analoghe abilità e, conseguentemente, un minore livello di istruzione con una bassa competenza. Alla luce di ciò, il livello di istruzione, paradossalmente, potrebbe avere un impatto:
a) negativo sui salari dei lavoratori qualificati, poiché l’offerta di lavoro specializzato aumenta. In questa circostanza l’occupazione potrebbe ridursi;
b) positivo sui salari dei lavoratori non qualificati. Infatti, se i lavoratori qualificati sostituiscono quelli non qualificati nelle produzioni che richiedono basse abilità, la produttività aumenta al pari dei salari. In questo caso, la disoccupazione potrebbe peggiorare. Si tratta del cosiddetto “paradosso dell’istruzione”, che si verifica quando lavoratori qualificati sono remunerati con salari più bassi.
In terzo luogo, sotto il profilo teorico, l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo è associata a lavoratori non qualificati, mentre quella originata dai paesi industrializzati a lavoratori altamente qualificati. Quindi, se l’apertura al commercio internazionale significa assenza o minori barriere nel mercato del lavoro, ciò potrebbe portare ad una riduzione dei salari in quanto l’offerta di lavoro per la manodopera non specializzata aumenta, spingendo verso il basso i salari. Infine, ma non per questo meno importante, le politiche governative possono tamponare gli effetti negativi dell’offshoring sul mercato del lavoro, con riferimento, a titolo esemplificativo e non esaustivo, a:
a)  profitti, aumentando la tassazione di quelli non reinvestiti nell’occupazione;
b)  istruzione, usando la politica fiscale per equilibrare l’offerta di lavoro non qualificata e qualificata;
c)  immigrazione, riducendo i permessi lavorativi per i migranti provenienti dai paesi in via di sviluppo.

(continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° 03/Ottobre 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari? (terza parte)»