27 July 2013

Se io fossi ...

Il countdown ha iniziato a scandire lentamente il suo inesorabile ticchettio e nessuno sa cosa accadrà dopo l'estate. Lo si percepisce sotto diversi aspetti, più meno evidenti. Solamente chi, con quella cattiva abitudine consolidata dalla prassi, preferisce instancabilmente guardarsi intorno con i paraocchi potrà sentirsi libero di affermare, con profonda convinzione, di non essersi accorto di nulla. Peccato che le conseguenze prodotte da chi è solito orientare il proprio atteggiamento in questa direzione siano "sotto" gli occhi di tutti e non "di fianco". Quindi, la scusa dei paraocchi non ha più alcuna giustificazione per reggere di fronte ad una lapalissiana realtà dei fatti. Oggi lo scenario presenta peculiarità considerevolmente mutate rispetto a qualche anno fa. Tuttavia, il merito non deve erroneamente essere attribuito a qualche sparuta opera pubblica, se così la si vuole chiamare. Quest'ultima, soprattutto in prospettiva di una competizione elettorale, è prevalentemente realizzata per colpire "con effetti speciali" quei Cittadini, che, da un lato, sono emotivamente impressionabili con qualcosa di "straordinario" e, dall'altro, sono tristemente ignari che l'effetto "ordinario" di questa scelta si ribalta sotto forma di interessi da pagare sul mutuo contratto per finanziarla. Quindi, alla resa dei conti, ad essere colpiti "con abili strategie" sono solo i loro portafogli. Sin dalle prime schermaglie che precederanno la dialettica elettorale, i Cittadini dovranno rimanere permanentemente vigili e sobri, senza farsi ubriacare da un dolce elisir di attenzione nei confronti dei loro problemi, che rischia poi, dopo l'apertura delle urne, di essere abilmente sostituito con un amaro olio di ricino, attento non ai bisogni collettivi, ma alle tasche del contribuente. Su questo fronte gli esempi si sprecano e sarà bene tenerli perennemente in vita per evitare che la memoria li releghi, al momento del voto, nel dimenticatoio. Infatti, se da un lato, il gioco preferito dal politico è quello dello "scarica barile" per evitare di essere accusato di scarsa modestia se mettesse in mostra le proprie abilità nel saper individuare soluzioni alternative o innovative (a titolo di esempio, il riferimento può essere associato alla "TARES"), dall'altro, questa verginità non trova riscontro quando l'applicazione di una maggiore tassazione è demandata ad una pura e semplice facoltà (e non derivante da un obbligo imposto da decreti o governi) di infliggere una tassazione (in questa circostanza, a titolo di esempio, il riferimento è, invece, alla "addizionale IRPEF"). Ben vengano, quindi, quei personaggi invisi ai centri di potere perché, essendo liberi da qualsiasi guinzaglio politico, possono esporre pubblicamente e con onestà intellettuale comportamenti poco trasparenti o non opportuni nella gestione della res publica. Oggi, chiunque sia eletto alla guida di una collettività dovrebbe essere onorato, durante una discussione sulla pubblica piazza, di essere "mandato a quel paese" da parte di un Cittadino, perché forse il suo attivismo o lassismo lo ha portato a meritarsi quell'epiteto o, in alternativa, non è stato in grado di creare le premesse per evitarlo. La reazione, però, non dovrebbe risiedere nell'adire le vie legali, in quanto servirebbe solo a mettere in evidenza un manifesto segno di debolezza. Occorrerebbe agire sulla propria filosofia di pensiero o sui personali comportamenti organizzativi per cercare di comprendere le ragioni che hanno spinto quell'appartenente alla sua Comunità a proferire tali parole e, fatto ancora più grave, sottovalutato, ignorato o non ascoltato le sue motivazioni. Oggi, chiunque sia premiato dagli elettori a condurre un paese dovrebbe vantarsi di "avere tra i piedi" individui che la pensano diversamente, perché è solo dall'incontro e dallo scontro di opinioni diverse che possono nascere soluzioni condivise. Oggi, chiunque risulti vincitore di una campagna elettorale deve prendere coscienza che il mondo è cambiato ed i problemi non si risolvono con l'uso (o l'abuso) di potere, ma con la consapevolezza che ogni forma di diversità culturale rappresenta un punto di forza, ossia un vantaggio competitivo per la crescita e lo sviluppo di una comunità sempre più eterogenea. Oggi, chiunque abbia l'onere di governare un paese deve saper parlare una lingua universale e non rivolgersi al pubblico facendo uso di uno sterile ed arcaico dialetto comprensibile a pochi ed ascoltato da nessuno. Oggi, chiunque si ritrovi al vertice di un paese, deve iniziare a ragionare a piramide rovesciata, consapevole che è su lui che andranno a ricadere tutte le conseguenze delle decisioni assunte ed è solo alimentando la fiducia nei Cittadini che sarà ancora possibile garantire loro l'esistenza di un futuro migliore.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 27 luglio 2013 con il titolo «Se io fossi ...»

18 July 2013

Il controllo budgetario come strumento di valutazione delle prestazioni

Da quando il legislatore ha emanato i primi provvedimenti normativi in materia contabile, nonostante sia già trascorso oltre un decennio, i risultati raggiunti nella direzione di una migliore allocazione delle risorse finanziarie pubbliche tardano a concretizzarsi. Ancora oggi, la produzione parlamentare disciplinante regole e comportamenti dell’attività degli Enti Locali continua a contenere elementi fortemente innovativi, che non trovano, sul fronte opposto, piena attuazione a causa delle resistenze che ogni volta si scatenano sotto forma di barriera al cambiamento. L’obiettivo delle disposizioni che hanno fatto seguito al Decreto Legislativo n° 77/1995 «Ordinamento finanziario e contabile degli Enti Locali», pioniere in materia, era quello di dar vita ad un processo irreversibile di radicale mutamento nella filosofia gestionale degli Enti Pubblici. In altre parole, se una trasformazione doveva esserci, questa avrebbe dovuto essere drastica e non graduale, in quanto «fare ciò che si faceva ieri, o farlo il 5% meglio, non è più una formula per il successo» (John KOTTER: «A force for change: how leadership differs from manager» - Free Press - 1990). Il nuovo modo di concepire l’amministrazione della “cosa pubblica” ha impattato con la scarsa propensione al change management incorporata negli Amministratori/Dirigenti degli Enti Locali, che hanno concentrato l’attenzione sulle cose non essenziali, agito ai margini, accentuato l’esistente ed eliminato il radicale. In altre parole, hanno fanno credere di essersi adoperati per il cambiamento per lasciare il sistema organizzativo uguale a prima. Infatti, anziché cavalcare l’onda innovativa che si andava sviluppando, hanno reagito come struzzi, isolandosi dall’ambiente circostante per rimanere ancorati a schemi giurassici collaudati. Non è facile addentrarsi nei particolari per cercare di capire quali forze entrano in competizione tra loro di fronte al cambiamento, orientando il modo di agire delle persone verso l’esaltazione, a parole, dei processi innovativi, ma ostacolandoli, di fatto, in tutte le loro forme di manifestazione. Una spiegazione non esaustiva al fenomeno può leggersi nella testimonianza che, in occasione di un intervento sul tema della ristrutturazione aziendale, fece Robert HOOD, manager della DOUGLAS AIRCRAF COMPANY. Egli osservò che: «All’interno dell’azienda, esistono dei personaggi, alcuni manager dello strato intermedio che - a causa del maggiore spostamento di autorità e responsabilità verso i livelli inferiori - pensano di perdere le loro posizioni e continuano ad opporsi». Aveva compreso che di fronte ad un contesto ambientale in continua evoluzione, il cambiamento organizzativo non era altro che la reazione naturale di fronte ad una minaccia o opportunità. Le leggi sono sempre state interpretate in senso restrittivo, mettendo in risalto divieti e ricercando vincoli, anziché cogliere quelle elasticità che, pur essendo presenti nell’intenzione del legislatore, sono sistematicamente occultate in sede applicativa senza alcuna logica. Spesso all’interno della struttura organizzativa pubblica, nel momento in cui si tenta di affrontare un procedimento con spinte verso la semplificazione amministrativa, il vertice burocratico interviene tempestivamente con una reazione seccata, che si nasconde dietro l’affermazione: «La legge non lo prevede». Si tratta di un esempio in negativo rientrante in quella casistica di eventi che l’Amministrazione Pubblica ostacola immediatamente per tamponare il sorgere di potenziali problemi legati indirettamente alla erogazione di servizi all’utenza finale. L’atteggiamento di chiusura mentale di fronte ad innovazioni procedimentali non può continuamente essere tollerato accettando risposte che nascondono, dietro la sterile motivazione illustrata, l’incapacità decisionale di coloro che dispongono del potere per risolvere i problemi degli utenti finali, garantendo la soddisfazione ai loro bisogni. Il fatto stesso che la norma non contempli una determinata fattispecie o una particolare modalità di gestione di una problematica, non vuole assolutamente significare che la stessa possa essere affrontata e risolta con strumenti non disciplinati dal legislatore. Anzi, l’obiettivo del dettato giuridico non è quello di stimolare l’Amministrazione Pubblica a reagire per trovare il modo di osteggiarne i principi attuativi, ma quello di agire per il perseguimento di interessi generali, tracciando, da un lato, linee guida comportamentali e, dall’altro, lasciando ampia libertà di movimento all’interno del confine disegnato dalla direttiva. La disciplina contabile, sin dalla metà degli anni Novanta, ha voluto premere sull’acceleratore per accorciare in breve tempo la distanza esistente tra il modello di gestione dell’Ente Pubblico e quello dell’azienda privata. La finalità era quella di impedire la continua dispersione di risorse pubbliche per effetto di una loro gestione incontrollata, disorganizzata e improvvisata, capace solamente di generare attività improduttive di benefici tangibili per coloro che sono chiamati a finanziare l’Ente Pubblico: i Cittadini. Sono stati individuati strumenti alternativi con i quali poter realizzare un’allocazione mirata delle risorse a disposizione, eliminando sprechi ed inefficienze per migliorare l’offerta di servizi e il grado di soddisfazione dei bisogni. In questo contesto, si è inserito il Piano Esecutivo di Gestione (PEG) con il quale, una volta definiti gli obiettivi e le dotazioni a disposizione, si individua un soggetto al quale affidare la responsabilità del loro raggiungimento. Il Piano Esecutivo di Gestione non deve essere confuso con il Bilancio Preventivo, dal quale trova giustificazione della sua coerenza di contenuto esclusivamente in termini finanziari. Pur non essendo previsto da alcuna norma, ciò che manca nell’Ente Locale è uno strumento che rappresenti il collante tra il documento finanziario di previsione e quello deputato a definire gli obiettivi da raggiungere con le risorse a disposizione. Infatti, il Bilancio Preventivo ed il Piano Esecutivo di Gestione dovrebbero costituire l’essenza dell’attività di programmazione nell’Ente Locale, mentre col tempo l’attenzione dedicata alla loro preparazione e verifica è andata scemando. Oggi, nella maggior parte degli Enti Locali, si assiste allo svolgimento di una triste attività ripetitiva, che concentra energie mentali sulla combinazione dei comandi “copia” e “incolla” ai file dell’esercizio precedente, indipendentemente da come si sono sviluppate le precedenti gestioni. Ciò che è assente è un insieme coordinato di attività che nel settore privato si traducono nel controllo budgetario, con le quali in via preventiva si potrebbe verificare la fattibilità degli obiettivi da decifrare nell’apposito documento, controllare l’andamento durante la gestione e determinare, al termine dell’esercizio, la modalità del loro raggiungimento. Nel Piano Esecutivo di Gestione gli obiettivi sono spesso la risultante di una grezza estrapolazione dalle risorse stanziate nel documento di previsione, senza alcun collegamento logico con le dotazioni strumentali e umane disponibili, con le esigenze dell’Ente o, peggio ancora, con i bisogni da soddisfare. La natura del loro conseguimento è completamente distorta ed interpretata a piacimento solo per giustificare l’erogazione di un’indennità di risultato o altre forme di incentivi monetari ai responsabili. Si dimentica, o per opportunità si tralascia, che un target va analizzato considerando non solo il grado di raggiungimento rispetto a quanto definito in sede di programmazione, ma soprattutto le modalità con le quali è stato perseguito. Purtroppo, nella realtà accade spesso che gli obiettivi dell’Amministrazione Pubblica si considerano realizzati quando i procedimenti amministrativi si sono esauriti, senza ponderare gli effetti che vanno ad incidere sulla sfera giuridica dei soggetti interessati. Operando in questa direzione, senza opportuni meccanismi di controllo a supporto delle decisioni, ulteriori risorse saranno depauperate a vantaggio di quei pochi intimi ai quali è riconosciuta una responsabilità di risultato, mentre all’esterno dell’Ente Locale i problemi continuano a rimanere irrisolti. Attraverso lo sviluppo di quelle attività che caratterizzano il budgetary control sarà possibile mettere a disposizione dell’Ente Locale uno strumento idoneo non solo per misurare correttamente gli obiettivi definiti ex ante, ma capace, altresì, di attribuire un valore preciso alle prestazioni eseguite per il loro raggiungimento. Solo in questo modo al concetto di “responsabilità” si potrà assegnare il reale significato, altrimenti servirà per legittimare la distribuzione di quote di ricchezza pubblica, senza aver ricevuto in contropartita un’analoga sensazione di soddisfacimento di bisogni.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 5/Maggio 2013 con il titolo «Il controllo budgetario come strumento di valutazione delle prestazioni»

7 July 2013

C'era una volta

Ancora una volta il Bel Paese non ha saputo smentirsi: ce l'ha fatta! E' riuscito a dimostrare al mondo tutta la sua proverbiale mancanza di volontà nel cambiare cattive abitudini. Il popolo delle cariatidi ha preferito rispecchiarsi nell'età media del patrimonio artistico, culturale e storico. Tuttavia, se quest'ultimo ha un valore inestimabile e costituisce un motivo di orgoglio nazionale, lo stesso non si può dire per una classe politica di arcaica provenienza che, con inaudita forza, pretende ancora di voler dettare legge. Per questa ragione, coloro che scalpitano per fuoriuscire da filosofie di pensiero di origine preistorica, sono immediatamente eletti ad agnello sacrificale per sottoporli ad una lenta e progressiva epurazione dalla cerchia dei morti viventi. Il Museo degli Orrori ha da qualche mese riaperto i battenti, riuscendo nell'intento di attirare dentro di sé il meglio di ciò che potesse rappresentarlo all'esterno come tale. Ora è perfettamente in grado di mettere in mostra una parziale rinnovata collezione di opere d'arte capace di infliggere ai cittadini il peggio di ciò che si potessero aspettare. Il nuovo Sovrintendente all'archeologia ce l'ha messa tutta per sradicare quelle incrostazioni che, in passato, hanno impedito il regolare andamento degli affari. Non è stato però sufficientemente incisivo. Le ragnatele una volta tolte, con facilità tendono a riformarsi, offuscando la vista di quei giovani eletti che erroneamente hanno sempre creduto di poter mettere piede in un palazzo di vetro. Invece, là dentro nulla di nuovo può permettersi di nascere. I brontosauri non avrebbero la forza per sopportare uno shock così forte e violento. La minaccia sarebbe quella di una futura estinzione. Chiunque si permetta di proporre un cambio di posizione finirebbe per essere accusato di voler sovvertire l'ordine pubblico e correrebbe il rischio di essere giustiziato dalla gogna mediatica. Deve essere palesemente chiaro, fin dal primo giorno di apertura dei lavori, che i procedimenti di mummificazione delle attività devono durare almeno cinque anni, ossia il tempo necessario affinché i velociraptor possano appropriarsi di tutti i benefici. Ha poca importanza se, nel frattempo, la realtà dei fatti bussa insistentemente alla porta per implorare un significativo cambiamento di rotta. Una volta chiuse definitivamente le urne, il processo di putrefazione diventa irreversibile e non è più ammissibile qualsiasi proposta che chieda a gran voce di scoperchiare il sarcofago. Lo spettro di un sacrilegio aleggerebbe all'orizzonte con il rischio di risvegliare antichi fantasmi. Difficile dire quando e se questo incubo finirà. C'è da augurarsi possa avvenire presto, prima che spetti al mondo l'ingrato compito di riesumare ciò che resta e rilasciare un breve comunicato stampa: "C'era una volta l'Italia!".
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 05/Maggio 2013 con il titolo «C'era una volta»