28 July 2012

Cultura: ossigeno cerebrale

Spesso ci si interroga sul perché la Pubblica Amministrazione non sia in grado di fronteggiare i bisogni della collettività, fornendo ai Cittadini quei servizi necessari alle esigenze da soddisfare. Una domanda alla quale non è particolarmente difficile trovare una risposta sensata perché è sufficiente sottoporre la questione al cosiddetto “elephant test” di estrazione anglosassone. Qualunque sia scenario di riferimento, la conclusione non muta il suo significato. Ha scarsa importanza la dimensione territoriale dell’Ente Pubblico governato (locale/nazionale) in quanto l’abilità nel saper fare una cosa non dipende né dall’età dell’esecutore, né dalla sua esperienza, ma dalla cultura con la quale approccia il problema. Si assiste con crescente frequenza a lasciare il governo della Città (o del Paese) in mano a soggetti close-minded, caratterizzati da una visione strategica miope, incapaci di adottare decisioni appropriate al bene comune ed inadeguati a reggere il passo dell’evoluzione culturale e tecnologica. Occorre, nella maggior parte dei casi, che le istanze o le critiche dei Cittadini non incontrino la giusta attenzione dell’Amministrazione di riferimento perché si collocano controcorrente rispetto ad una filosofia di gestione improntata alla carlona ed ispirata all’arte del michelaccio. Di fronte ad una difficoltà è meglio rivolgere lo sguardo altrove oppure limitarsi a fare spallucce, lasciando che il barile sia scaricato da monte a valle, lasciandolo poi miseramente rotolare nella pianura della foresta burocratica. In altre parole, i problemi non sono risolti, ma molto più convenientemente eliminati. Sicuramente questo modus operandi funziona fino a quando non si verifica qualche evento straordinario che lo riporta a galla, rendendo così di dominio pubblico l’incapacità della Pubblica Amministrazione di affrontare di petto la questione, costringendola ad assumersi quelle responsabilità che le competono e per le quali i Cittadini pagano le tasse. Capita, quindi, che se il cosiddetto “uomo della strada” osa alzare lo sguardo per contestare il comportamento del politico di turno, immediatamente le forze si uniscono, dirigendosi in massa verso l’obiettivo da annientare e distruggere, ossia il libero pensiero e la critica politica. Si attiva la peggiore macchina amministrativa con la finalità di dare una lezione a coloro che si sono permessi di mettere in discussione l’agire del pubblico amministratore che si continua a credere sia immune agli errori. Anziché concentrare gli sforzi sul perché suggerimenti e opinioni divergenti sono formulati dai Cittadini, le energie sono dirottate sulla peggiore censura che la storia ricordi. Siamo lontani anni luce da quella galassia formata da un vertice politico illuminato per doverci tristemente accontentare di quello che naviga a vista, procurando danni non solo irreparabili, ma spesso irreversibili. Quindi, per quale misteriosa ragione non ci si preoccupa di commettere errori durante l’espletamento del proprio mandato elettorale? La risposta è semplice. A farne le spese sono solo ed esclusivamente i Cittadini e, fatto ancor più grave, i danni sono pagati non da chi li ha procurati, ma da coloro che li hanno subiti.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato suhttp://www.tigulliana.org del 28 luglio 2012 con il titolo «Cultura: ossigeno cerebrale»

24 July 2012

Perché non lasciare che sia il mercato ad assegnare il rating al debito sovrano?


La tripla “A” assegnata ad uno stock di debito sovrano consente, allo Stato emittente, di prendere a prestito denaro a basso costo. È necessario, tuttavia, sfatare un tabù, per cercare di comprenderne al meglio il significato. Quel giudizio dovrebbe rispecchiare il grado di affidabilità e stabilità dei governi che emettono certificati rappresentativi del debito pubblico. Tuttavia, quel coefficiente di valutazione è frutto sempre e comunque di un’opinione tecnica, ma soggettiva, ed è un’indicazione relativa e non assoluta. Infatti, se le Agenzie di rating, che sono i soggetti deputati ad assegnare, secondo una propria scala di valori, un giudizio ai titoli del debito sovrano, procedessero con un downgrade di tutti i paesi, la situazione che si andrebbe a configurare non cambierebbe la sostanza dei fatti. In altre parole, quei paesi che ora occupano il vertice della classifica con la tripla “A”, continuerebbero a trovarsi in posizione di primato rispetto agli altri, pur avendo un rating più basso. La conseguenza rimarrebbe immutata, perché quei governi continuerebbero ad ottenere finanziamenti ad un costo più a buon mercato rispetto agli altri. Ciò si verifica perché il giudizio sul livello di solvibilità di un governo non è lasciato in balia degli umori del mercato, che, attraverso il meccanismo dell’incontro tra la domanda e l’offerta determina sia la quotazione di un titolo, sia il tasso di interesse implicito, ma ad un giudizio che, anche se derivante da analisi, studi e ricerche sui fondamentali di ogni Paese, resta pur sempre soggettivo ed affidato al sentimento del valutatore. Per ovviare a potenziali distorsioni interpretative e dipanare tutte le polemiche, oltre alle varie inchieste aperte da organismi di vigilanza (Consob) o giudiziari che ruotano intorno alla veridicità dei giudizi espressi dalle Agenzie di rating, può essere opportuno studiare un nuovo metodo, più automatico e meno soggettivo, di valutazione. La proposta è quella di affiancare il coefficiente di affidabilità ad una scala di valori dinamica, con range pari ad un quarto di punto percentuale, variabile quotidianamente (e non periodicamente). Al vertice si andrebbero a collocare sempre i paesi che offrono, per i propri titoli, il rendimento meno elevato (qualunque esso sia). In questo modo, ad essi verrebbe assegnato il coefficiente massimo di valutazione (equivalente all’attuale tripla “A”) e a cascata seguirebbero tutti gli altri. Il rendimento cui si sta facendo riferimento non è quello esplicito che costituisce la base per il calcolo delle cedole, ma quello implicito che scaturisce dalla quotazione del titolo sul mercato. Operando in questa direzione, il giudizio sull’affidabilità di un governo sarebbe demandato al mercato, che, fino a prova contraria, è sempre meno soggettivo di quello formulato dalle tre sorelle (Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s), in quanto derivante da numerose operazioni di scambio tra miriadi di operatori che investono direttamente nei titoli del debito sovrano. Il giudizio sull’affidabilità di un titolo andrebbe incontro ad oscillazioni quotidiane e verificato all’istante perché l’informazione sarebbe fruibile in tempo reale da tutti gli operatori sul mercato e non demandato a comunicati stampa emessi a sorpresa. In questo modo, si potrebbero avere due certezze: la prima, una maggiore stabilità nelle quotazioni, perché il coefficiente di affidabilità sarebbe automaticamente determinato da milioni di soggetti che investono direttamente in quei titoli, manifestando la personale fiducia nel governo che li emette; la seconda è che si eviterebbe di formulare valutazioni estrapolandole da analisi soggettive, che diventerebbero così inutili e inoffensive, essendo potenzialmente influenzabili da centri di potere. La critica che potrebbe essere mossa ad una simile proposta è che il mercato si muove in maniera irrazionale, perché il suo comportamento è il risultato di ciò che percepiscono gli investitori che in esso operano. Le valutazioni soggettive, invece, sono più razionali, perché frutto di analisi complesse ed elaborate, che prendono in considerazione più fattori. Nel mercato, però, si assiste in continuazione all’incontro tra la domanda e l’offerta, che porta sempre all’individuazione di un prezzo di equilibrio, che è accettato dalle parti in causa come il migliore in quel momento. Quindi, in un contesto di forte instabilità quale dei due comportamenti appare il più credibile? Quello che risulta dagli scambi che avvengono sul mercato e che riflettono la fiducia degli investitori o quello adottato dalle Agenzie di rating che fondano le proprie analisi su dati storici e prospettici? La partita rimane aperta, perché l’unica certezza in questo momento è quella che tra irrazionalità e razionalità non c’è alcuna differenza!
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista dell'08 agosto 2011 con il titolo «Perché non lasciare che sia il mercato ad assegnare il rating al debito?»

13 July 2012

Pubblica Amministrazione tra principi e responsabilità

 
Sono ormai passati diversi mesi da quando il Parlamento ha licenziato il Decreto Legislativo n° 150/2009 «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n° 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni», ma il tema trattato non cessa di essere oggetto di critiche, dibattiti e opinioni, a dimostrazione che il susseguirsi delle stagioni non ha comportato modifiche negli stili di vita, perpetuando una moda intramontabile. Eppure, al di là del contenuto delle discussioni, siano esse favorevoli o contrarie, la lettura del dettato normativo non fa trasparire quelle novità che hanno fatto aumentare la temperatura della preoccupazione tra gli addetti ai lavori per un cambiamento che, in realtà, non c’è ancora stato, non sembra previsto e, probabilmente, non si verificherà. La riforma della Pubblica Amministrazione è un processo in itinere, iniziato ormai vent’anni fa, anche se, per cause dipendenti dalla volontà di tutti e di nessuno, i risultati che risiedevano nell’intenzione del Legislatore continuano a non manifestarsi. Infatti, come avviene in qualsiasi processo continuo che si ispira al cambiamento, dovrebbe avere la finalità, se perseguita nel rispetto della metodologia "kaizen", di individuare ed apportare sensibili miglioramenti all'intera Struttura Organizzativa. Nella realtà, invece, si assiste ad uno strano fenomeno, inquietante quanto misterioso, che consiste nel valutare attentamente le trasformazioni positive prospettate dalle nuove regole, per iniettare un virus letale capace di inibirle, anziché cavalcare l'onda del progresso che va nella direzione di assicurare livelli qualitativi superiori nei servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione. La filosofia storica che ha ispirato il processo di rinnovamento ha investito, soprattutto, il comportamento organizzativo, sancendo con l’articolo 3 del Decreto Legislativo n° 29/1993 «Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego» (oggi articolo 4 del Decreto Legislativo n° 165/2001 «Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche») quel principio di separazione dei poteri, che da tempo memorabile aveva collocato la volontà politica al vertice di tutto il processo decisionale. La piramide dell'Organizzazione iniziava così lentamente a schiacciarsi verso il basso, senza, tuttavia, implodere, perché gli interessi in gioco erano ancora molti e non era ammissibile tranciare di netto quel cordone ombelicale che tiene ancora imbrigliata la classe dirigente agli umori della politica. Il primo passo del legislatore fu quello di separare il processo di formazione delle decisioni in due grandi aree:
a) da un lato, l’azione di governo da proporre nel periodo di mandato (potere di indirizzo);
b) dall’altro, l’azione di amministrazione da sviluppare nel corso dell’anno (potere di gestione).
L’impronta riformatrice non era stata disegnata esclusivamente con l’idea di evitare (o almeno limitare) ingerenze di una parte nell’attività tipica dell’altra, ma si proponeva l’ambizioso obiettivo di far percepire a tutti gli attori quel senso di appartenenza ad un’Organizzazione, attraverso coinvolgimento, consapevolezza e responsabilità nell’adozione delle decisioni: politiche (nel primo caso), tecniche (nel secondo). Tutto ciò ha prodotto una forte spinta innovativa per individuare moderni modelli organizzativi e adeguati processi operativi. I primi, toccano da vicino la responsabilità politica, che deve preoccuparsi di costruire un’architettura organizzativa dotata di strumenti flessibili per generare consenso nella comunità di riferimento, in coerenza con il processo di pianificazione degli interventi da realizzare, per conseguire gli obiettivi sbandierati nel programma elettorale. Se correttamente intesa, rappresenta il punto dal quale partire per attuare quella trasformazione radicale nella gestione affidata alla politica che si traduce nel passaggio dalle tecniche di government, indirizzate alla produzione e implementazione di politiche pubbliche, a quelle di governance, orientate a valutare gli effetti dei comportamenti posti in essere sui soggetti investiti dalle policy. I secondi, investono in pieno la responsabilità manageriale, che deve sforzarsi di individuare meccanismi idonei a stimolare un’accelerazione nel passo burocratico per consentire il raggiungimento dei target fissati dalla classe politica. Resta ferma l'ipotesi che il modus operandi deve avere sempre in primo piano la cognizione che da ogni processo decisionale scaturiscono responsabilità:
a)   politiche (connesse agli obiettivi da realizzare);
b)   manageriali (legate alla realizzazione degli obiettivi);
c)    patrimoniali (relative ai danni cagionati dall’azione);
d)   penali (derivanti dall’adozione di comportamenti illegali).
Occorre, pertanto, improntrare lo sviluppo dell’azione amministrativa all'osservanza di due principi fondamentali:
1)   buon andamento;
2)   imparzialità;
dai quali, se rispettati, discendono automaticamente quelli di:
a)   efficacia;
b)   efficienza;
c)    economicità;
d)   legalità;
e)    partecipazione;
f)     pubblicità;
g)   trasparenza.
Non è un caso se i due principi guida richiamati sono stati volutamente incastonati all'interno della Carta Costituzionale (all'articolo 97) per illuminare costantemente il decisore pubblico che qualunque linea di condotta della Pubblica Amministrazione deve essere estrapolata da essi. Per questo, è possibile individuare la loro giusta interpretazione all'interno della produzione normativa, laddove si tenta di far comprendere l'importanza del processo di programmazione delle attività, se esistente, dal quale dovrebbero scaturire decisioni che prevedono l'adozione di comportamenti razionali. Pertanto, l'imperativo del "buon andamento" si converte sul piano operativo nel prestare particolare attenzione:
a) alle scelte da adottare, che devono essere guidate dai principi enunciati dalle tre "E";
b) alle procedure da seguire, che impongono il coinvolgimento degli altri principi;
mentre la "imparzialità" chiama in causa quella posizione di neutralità che deve permeare il comportamento di tutti gli operatori, dovendo evitare disparità di trattamento nel prendere in considerazione l'intreccio degli interessi coinvolti. Questi ultimi trovano ulteriore garanzia nell'articolato della norma sul procedimento amministrativo (Legge n° 241/1990 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi») che prevede:
1) l'esistenza di un Responsabile del Procedimento (articolo 5);
2) la partecipazione e l'intervento al/nel procedimento (articolo 7 e articolo 9);
3) la pubblicità del fascicolo (articolo 10);
4) l'obbligo di motivazione (articolo 3);
5) la predeterminazione dei criteri per l'ottenimento di vantaggi economici (articolo 12).
Infine, la mancata conformità dell'azione amministrativa al dogma della trasparenza, che, in un certo senso, fa da cornice agli altri principi, impatta negativamente su quelli fondamentali, poiché stimola la diffusione di atteggiamenti promossi dalla volonta di tutelare interessi di parte. E' facile comprendere, quindi, come dal rispetto delle regole sancite dalla Costituzione possano discendere implicitamente tutta una molteplicità di condotte, la cui combinazione configura il pubblico agire, che nella responsabilizzazione trova l'asse portante di una Pubblica Amministrazione più credibile.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice9/Settembre 2010 con il titolo «Pubblica Amministrazione tra principi e responsabilità»