14 September 2013

L'opportunità di una società partecipata

Quotidianamente il Cittadino si trova ad impattare con l’attività della Pubblica Amministrazione. Sono una rarità i casi in cui da questo incontro ravvicinato ne esca vincitore, poiché il potere d’imperio cui dovrebbe ispirarsi l’azione amministrativa del Settore Pubblico lo colloca sempre al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Tutto ciò non sarebbe fonte di preoccupazione se l’esercizio di questa supremazia andasse nella direzione volta a soddisfare i sempre più numerosi bisogni della platea di riferimento. Per contro, l’uomo della strada sembra aver ereditato, o contratto, il morbo della “insoddisfazione perenne”, perché qualunque sia il colore di una decisione pubblica, il parere rimane stabilmente collocato nell’alveo della contrarietà. Per ovviare a questo malessere diffuso potrebbe essere utile poter sfruttare l’opportunità offerta da una società partecipata, nella quale a decidere le sorti del loro futuro sono direttamente i Cittadini, con le modalità assicurate da questo strumento. All’Organo esecutivo della Pubblica Amministrazione resterebbe solo, in via residuale, il delicato compito di gestire gli input provenienti dalla Comunità che rappresenta e, soprattutto, nel loro esclusivo interesse. La realtà, purtroppo, ha abituato l’essere umano ad altri scenari e spesso lo costringe ad aprire gli occhi su conseguenze ben diverse, il più delle volte frutto di distorsioni comunicative o, per meglio dire, interpretative sul vero significato di società partecipata. Infatti, se il riferimento è allo specifico caso di cui sopra, l’obiettivo è quello di consentire ai Cittadini di scegliere tra opzioni diverse ed aventi un unico denominatore comune: il loro interesse. Nella seconda fattispecie, invece, la finalità perseguita è quella di creare speciali contenitori ai quali demandare la gestione di risorse pubbliche, lasciando all’interno della struttura madre solo determinate attività che, pur avendo diversa natura, hanno anche loro un denominatore comune o, meglio, una destinazione univoca: il portafoglio del Cittadino. E la prassi sembra essere sempre questa, altrimenti avrebbe un altro nome. Infatti, quando si presenta l’opportunità di privilegiare l’interesse del Cittadino si tende a ricorrere a qualsiasi espediente per far sì che, grazie ad una diversa interpretazione del medesimo concetto, tutto sia tutelato al di fuori di quella che era l’originaria finalità. Un esempio, può aiutare a chiarire il significato di questo pensiero. Con le cosiddette “privatizzazioni” l’intenzione era quella di affidare ad un soggetto privato la gestione di alcuni servizi (o la produzione di alcuni beni) affinché, grazie ad una amministrazione più efficiente rispetto a quella svolta dal settore pubblico, potesse scaturire una riduzione dei costi e, quindi, a cascata dei prezzi. Ciò avrebbe consentito ai Cittadini di avvantaggiarsi di tutti i benefici nascenti e conseguenti. E’ inutile richiamare alla memoria come sia andata a finire. Può essere sufficiente pensare alla gestione degli acquedotti pubblici affinché ogni individuo di buona volontà possa razionalmente trarre, nel suo intimo, le personali conclusioni. Quindi, grazie a questa filosofia operativa è possibile influenzare negativamente anche quella società partecipata che era stata ideata con le migliori premesse. Arrivati a questo punto della riflessione la deformazione professionale tende a chiamare in causa una simpatica storiella. L’obiettivo è quello di agevolare la comprensione di un fenomeno complesso, esplodendolo nelle sue elementari componenti, utilizzando semplici operazioni di aritmetica di base. E come tutte le favole che si rispettano, l’incipit è noto a tutti. «C’era una volta un piccolo regno dove risiedevano solo 100 anime. Una piccola comunità, molto attiva che, per effetto del loro interagire quotidiano, si era resa colpevole di produrre rifiuti. L’Amministrazione Reale, retta dal Sovrano di turno, aveva tra gli obiettivi quello di garantire il benessere dei suoi Sudditi. Venne, quindi, organizzata la raccolta dei rifiuti sul territorio del regno. Ben presto, i ragionieri della corona si accorsero che l’attività di pulizia comportava un costo pari a 1000. E poiché in un recente passato era stata emanata una legge sovrana che imponeva la copertura di questo onere al 100%, il Re deliberò che ogni Suddito avrebbe dovuto pagare una “tassa sui rifiuti” pari a 10 (ossia 1000 diviso il numero di abitanti 100)». Oggi questo “contributo” pro-capite si chiamerebbe TARES, ma poiché l’acronimo sembra indicare qualcosa che l’Amministrazione Pubblica dà, mentre in realtà prende, nella storiella si è preferito fare riferimento ad una volgare “tassa sui rifiuti”, perché di questo in fondo si tratta. Fin qui, quindi, nulla di trascendentale. La favola ha saputo rendere tutto più chiaro, semplice, lapalissiano. Ma il racconto non finisce qui, perché ogni fiaba deve avere un lieto fine. «Nel regno esisteva, in prossimità del lago, un’area che poteva rendere il territorio più fiorente, generando ulteriori risorse da destinare al benessere del popolo. Il Sovrano decise di destinare quell’area ad un mercato, mettendo a disposizione 20 “posti banco”, che potevano essere noleggiati per la vendita dei prodotti locali. L’iniziativa si prospettò un successo, ma presto ci si rese conto che anche il mercato produceva rifiuti. Poiché la fiera era ubicata nel regno, occorreva provvedervi. Sua Maestà, oculatamente consigliato dai contabili del reame, decise di estendere il contratto di pulizia anche al suolo destinato al mercato. Questa pulizia implicava un costo supplementare pari a 300 e, non potendo esimersi dall’applicare la legge sovrana di copertura al 100%, il Monarca decise che, per un principio di equità e giustizia, avrebbero dovuto farsene carico solo coloro che avevano preso a nolo i “posti banco”, perché in fin dei conti erano responsabili in prima persona della produzione di quei rifiuti specifici. Pallottoliere alla mano, emerse che ogni utilizzatore del “posto banco” doveva pagare una “tassa sui rifiuti” per 15 (dato da 300 diviso il numero dei “posti banco” 20)». A questo punto della fiaba è necessario un breve riepilogo. Per chi avesse perso il filo di Arianna, il costo totale del servizio di pulizia è pari a 1300 ripartito equamente tra i Sudditi (1000), tassati per 10 a testa, e coloro che prendevano a nolo i “posti banco” (300), tassati per 15 a testa. Ed ecco, finalmente, arrivato il lieto fine. «Dopo qualche tempo, l’attività del mercato non piacque al Sovrano perché appesantiva la burocrazia del regno. Emise un editto con il quale trasferì la gestione del mercato ad un contenitore magico appositamente creato. Decise dall’alto della sua autorità di chiamarlo “società partecipata”. All’Amministrazione Reale rimase l’obbligo di continuare a pulire l’intero territorio perché anche l’area sulla quale insisteva il mercato era di proprietà della corona e non della neonata creatura della “società partecipata”. Grazie a quella “illuminata” decisione, i Sudditi dovettero farsi carico dei costi di pulizia del territorio per 1300, che nel rispetto della legge sovrana di copertura dei costi al 100%, corrispondeva ad una “tassa sui rifiuti” pro-capite di 13 (dato da 1300 diviso il numero degli abitanti 100). Un “magico” aumento del 30% rispetto alla precedente contribuzione individuale di 10. E tutto ciò in virtù non di servizi migliori, ma grazie a quella scatola magica della “società partecipata”, nella quale le decisioni avrebbero dovuto appartenere al popolo e che, contrariamente alla generale percezione, si era tradotta in una effettiva spoliazione di attività. Da quel giorno, grazie a Sua Maestà, quei Sudditi smisero di vivere felici e contenti». Ogni decisione pubblica dovrebbe sempre ispirarsi al principio del “no taxation without representation”, per ricordare al popolo che ciò su cui un Sovrano non ha diritto di chiedere, il Cittadino ha il diritto di rifiutare. Ed è proprio in questo che consiste la vera società partecipata!
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 14 settembre 2013 con il titolo «L'opportunità di una società partecipata»

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