18 January 2014

L'insostenibile ignoranza dell'essere

L'inarrestabile progresso tecnologico comporta, da un lato, un perpetuo mutamento sia dei bisogni collettivi, sia delle tecniche da adottare per il loro soddisfacimento e, dall'altro, una crescente riduzione dei tempi a disposizione del pertinente processo decisionale. Oggi, non è più possibile insistere nel sostenere filosofie di pensiero che rispolverano soluzioni arcaiche, anche se sperimentate e collaudate con successo. Esse, infatti, non solo sono state le principali responsabili degli odierni problemi, ma non sono mai state sottoposte ad una revisione critica perché, una volta individuate, si è pensato, erroneamente, che potessero essere valide per l'eternità. Poiché il processo di sviluppo è, per definizione, destinato a migliorare istantaneamente lo stato dell'arte (altrimenti si chiamerebbe diversamente), i decisori pubblici di preistorica provenienza risultano scarsamente adeguati a guidare un Paese. Infatti, se il processo di crescita non è stato accompagnato da un analogo sviluppo della conoscenza, i meccanismi decisionali sono rimasti ancorati a stereotipi che, benché fondati sull'esperienza, sono palesemente "old fashioned". Ed il pericolo di affidare la guida di un Paese a simili personaggi è insita nel loro stesso comportamento, spesso autoreferenziale e autoritario, che li spinge a credere di non aver bisogno di sottoporsi ad alcuna operazione di lifting. Anche se riferito ad un'Organizzazione privata, la sostanza non si discosta da quanto affermato da Robert D. HAAS, manager della LEVI STRAUSS & Company: «In un ambiente aziendale sempre più incostante e dinamico, i controlli devono essere concettuali. Sono le idee a controllare, non i dirigenti in possesso di autorità». Questo concetto elementare, peraltro, era già stato messo in evidenza, nel lontano 1861, da John Emerich Edward DALBERG-ACTON, storico e politico britannico, meglio noto alle cronache come Lord ACTON. Con parole magistrali aveva sostenuto che: «Ci sono due cose che non possono essere attaccate frontalmente: l'ignoranza e la ristrettezza mentale. Le si può soltanto scuotere con il semplice sviluppo delle qualità opposte. Non tollerano la discussione». Da ciò deriva la semplice constatazione che se i due elementi distintivi citati non possono essere fronteggiati direttamente, allora l'alternativa consiste nella loro rimozione. E l'unica strada percorribile è quella di orientare la propria preferenza elettorale in opposta direzione. Infatti, se ciò non dovesse accadere ed il potere rimanesse in mano a soggetti che predicano il rinnovamento, ma nella continuità, l'unica via da imboccare è quella di fuga. Dello stesso avviso è il pensiero elaborato recentemente da Giovanni SORIANO ("Malomondo - In lode della stupidità", 2013), che illustra senza mezzi termini la soluzione più idonea se dovesse prevalere questa circostanza: «Quando ci si trova dinanzi l'ignoranza - se non l'aperta stupidità - mista alla presunzione, è il momento di darsela a gambe. E anche in fretta». Sarà forse questo uno dei motivi che hanno influenzato negativamente il tasso di residenzialità di un paese? Difficile sostenerlo, ma potrebbe essere interessante approfondire l'analisi dinamica del fenomeno. Quindi, è opportuno porre l'accento su un principio cardine: «L'unico pericolo sociale è l'ignoranza». Lo aveva sostenuto Victor HUGO ne "I miserabili" (1862). Alla luce dei fatti, quell'appello pare sia stato sempre inascoltato: l'ignoranza ha reso miserabile il Cittadino, nel senso che ha contribuito a peggiorarne il benessere e la condizione sociale. Anche SOCRATE, nel III secolo, aveva già intravisto, nella sua lungimirante visione, la pericolosità di questa caratteristica intellettuale. Il filosofo greco aveva sancito che «esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l'ignoranza». Viene, quindi, da chiedersi come sia stato possibile che, nel corso dei secoli, abbia sempre prevalso il maligno sul suo antagonista. La conoscenza è oggi vista come una risorsa intellettuale da sfruttare nei paesi che sanno attribuire alla meritocrazia il giusto valore. In Italia, e a livello locale ancor più marcatamente, i soggetti in possesso di conoscenza sono tacciati di supponenza, di presunzione e, spesso, passano per antipatici. Al contrario, sono individui educati a dire o scrivere ciò che pensano e con cognizione di causa. Ed è proprio la ragione logica delle loro elaborate riflessioni che infastidisce o irrita il prossimo, perché non lascia spazio ad altre interpretazioni se non quelle che le parole usate vogliono realmente significare. Ma anche in queste specifiche circostanze si inseriscono subdoli personaggi, che la dottrina identifica negli "yesman" (o più volgarmente, secondo la dottrina anglosassone, "asslicker"), che sostengono di aver capito l'esatto contrario solo per il ludico fine di intorbidire le acque, fuorviando ed ingannando l'innocente lettore per timore di perderne il consenso. Eppure non dovrebbero esserci difficoltà nel percepire che si tratta di individui per i quali, per dirla con le parole del giornalista e saggista americano Henry Louis MENCKEN, «è difficile far capire qualcosa ad un uomo il cui reddito dipenda dal suo non capire». Anche in questa occasione emerge con prepotenza non solo quell'insostenibile ignoranza dell'essere che campa sul servilismo, ma anche quella che caratterizza la stupidità del padrone. Ed è proprio Charles-Louis de MONTESQUIEU che, ne "Lo spirito delle Leggi" (1748), disegna questo quadro: «L'obbedienza estrema presuppone ignoranza in colui che obbedisce; la presuppone anche in colui che comanda; questi non ha da deliberare, da dubitare, da ragionare, non ha che da volere». Non è forse giunto il momento di far tesoro dell'insegnamento ricevuto da bambini per far comprendere a questi personaggi che "l'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re?".
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 18 gennaio 2014 con il titolo «L'insostenibile ignoranza dell'essere»

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