L'inarrestabile
progresso tecnologico comporta, da un lato, un perpetuo mutamento sia
dei bisogni collettivi, sia delle tecniche da adottare per il loro
soddisfacimento e, dall'altro, una crescente riduzione dei tempi a
disposizione del pertinente processo decisionale. Oggi, non è più
possibile insistere nel sostenere filosofie di pensiero che
rispolverano soluzioni arcaiche, anche se sperimentate e collaudate
con successo. Esse, infatti, non solo sono state le principali
responsabili degli odierni problemi, ma non sono mai state sottoposte
ad una revisione critica perché, una volta individuate, si è
pensato, erroneamente, che potessero essere valide per l'eternità.
Poiché il processo di sviluppo è, per definizione, destinato a
migliorare istantaneamente lo stato dell'arte (altrimenti si
chiamerebbe diversamente), i decisori pubblici di preistorica
provenienza risultano scarsamente adeguati a guidare un Paese.
Infatti, se il processo di crescita non è stato accompagnato da un
analogo sviluppo della conoscenza, i meccanismi decisionali sono
rimasti ancorati a stereotipi che, benché fondati sull'esperienza,
sono palesemente "old
fashioned".
Ed il pericolo di affidare la guida di un Paese a simili personaggi è
insita nel loro stesso comportamento, spesso autoreferenziale e
autoritario, che li spinge a credere di non aver bisogno di
sottoporsi ad alcuna operazione di lifting.
Anche se riferito ad un'Organizzazione privata, la sostanza non si
discosta da quanto affermato da Robert
D. HAAS,
manager
della LEVI
STRAUSS & Company:
«In
un ambiente aziendale sempre più incostante e dinamico, i controlli
devono essere concettuali. Sono le idee a controllare, non i
dirigenti in possesso di autorità».
Questo concetto elementare, peraltro, era già stato messo in
evidenza, nel lontano 1861, da John
Emerich Edward DALBERG-ACTON,
storico e politico britannico, meglio noto alle cronache come Lord
ACTON. Con parole magistrali aveva sostenuto che: «Ci
sono due cose che non possono essere attaccate frontalmente:
l'ignoranza e la ristrettezza mentale. Le si può soltanto scuotere
con il semplice sviluppo delle qualità opposte. Non tollerano la
discussione».
Da ciò deriva la semplice constatazione che se i due elementi
distintivi citati non possono essere fronteggiati direttamente,
allora l'alternativa consiste nella loro rimozione. E l'unica strada
percorribile è quella di orientare la propria preferenza elettorale
in opposta direzione. Infatti, se ciò non dovesse accadere ed il
potere rimanesse in mano a soggetti che predicano il rinnovamento, ma
nella continuità, l'unica via da imboccare è quella di fuga. Dello
stesso avviso è il pensiero elaborato recentemente da Giovanni
SORIANO ("Malomondo
- In lode della stupidità",
2013), che illustra senza mezzi termini la soluzione più idonea se
dovesse prevalere questa circostanza: «Quando
ci si trova dinanzi l'ignoranza - se non l'aperta stupidità - mista
alla presunzione, è il momento di darsela a gambe. E anche in
fretta».
Sarà forse questo uno dei motivi che hanno influenzato negativamente
il tasso di residenzialità di un paese? Difficile sostenerlo, ma
potrebbe essere interessante approfondire l'analisi dinamica del
fenomeno. Quindi, è opportuno porre l'accento su un principio
cardine: «L'unico
pericolo sociale è l'ignoranza».
Lo aveva sostenuto Victor HUGO ne "I
miserabili"
(1862). Alla luce dei fatti, quell'appello pare sia stato sempre
inascoltato: l'ignoranza ha reso miserabile il Cittadino, nel senso
che ha contribuito a peggiorarne il benessere e la condizione
sociale. Anche SOCRATE, nel III secolo, aveva già intravisto, nella
sua lungimirante visione, la pericolosità di questa caratteristica
intellettuale. Il filosofo greco aveva sancito che «esiste
un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l'ignoranza».
Viene, quindi, da chiedersi come sia stato possibile che, nel corso
dei secoli, abbia sempre prevalso il maligno sul suo antagonista. La
conoscenza è oggi vista come una risorsa intellettuale da sfruttare
nei paesi che sanno attribuire alla meritocrazia il giusto valore. In
Italia, e a livello locale ancor più marcatamente, i soggetti in
possesso di conoscenza sono tacciati di supponenza, di presunzione e,
spesso, passano per antipatici. Al contrario, sono individui educati
a dire o scrivere ciò che pensano e con cognizione di causa. Ed è
proprio la ragione logica delle loro elaborate riflessioni che
infastidisce o irrita il prossimo, perché non lascia spazio ad altre
interpretazioni se non quelle che le parole usate vogliono realmente
significare. Ma anche in queste specifiche circostanze si inseriscono
subdoli personaggi, che la dottrina identifica negli "yesman"
(o più volgarmente, secondo la dottrina anglosassone, "asslicker"),
che sostengono di aver capito l'esatto contrario solo per il ludico
fine di intorbidire le acque, fuorviando ed ingannando l'innocente
lettore per timore di perderne il consenso. Eppure non dovrebbero
esserci difficoltà nel percepire che si tratta di individui per i
quali, per dirla con le parole
del giornalista e saggista americano Henry Louis MENCKEN, «è
difficile far capire qualcosa ad un uomo il cui reddito dipenda dal
suo non capire».
Anche in questa occasione emerge con prepotenza non solo
quell'insostenibile ignoranza dell'essere che campa sul servilismo,
ma anche quella che caratterizza la stupidità del padrone. Ed è
proprio Charles-Louis de MONTESQUIEU che, ne "Lo
spirito delle Leggi"
(1748), disegna questo quadro: «L'obbedienza
estrema presuppone ignoranza in colui che obbedisce; la presuppone
anche in colui che comanda; questi non ha da deliberare, da dubitare,
da ragionare, non ha che da volere».
Non è forse giunto il momento di far tesoro dell'insegnamento
ricevuto da bambini per far comprendere a questi personaggi che
"l'erba
voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re?".
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: www.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 18 gennaio 2014 con il titolo «L'insostenibile ignoranza dell'essere»