Quotidianamente
il Cittadino si trova ad impattare con l’attività della Pubblica
Amministrazione. Sono una rarità i casi in cui da questo incontro
ravvicinato ne esca vincitore, poiché il potere d’imperio cui
dovrebbe ispirarsi l’azione amministrativa del Settore Pubblico lo
colloca sempre al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Tutto ciò non
sarebbe fonte di preoccupazione se l’esercizio di questa supremazia
andasse nella direzione volta a soddisfare i sempre più numerosi
bisogni della platea di riferimento. Per contro, l’uomo della
strada sembra aver ereditato, o contratto, il morbo della
“insoddisfazione
perenne”, perché
qualunque sia il colore di una decisione pubblica, il parere rimane
stabilmente collocato nell’alveo della contrarietà. Per ovviare a
questo malessere diffuso potrebbe essere utile poter sfruttare
l’opportunità offerta da una società partecipata, nella quale a
decidere le sorti del loro futuro sono direttamente i Cittadini, con
le modalità assicurate da questo strumento. All’Organo esecutivo
della Pubblica Amministrazione resterebbe solo, in via residuale, il
delicato compito di gestire gli input
provenienti dalla Comunità che rappresenta e, soprattutto, nel loro
esclusivo interesse. La realtà, purtroppo, ha abituato l’essere
umano ad altri scenari e spesso lo costringe ad aprire gli occhi su
conseguenze ben diverse, il più delle volte frutto di distorsioni
comunicative o, per meglio dire, interpretative sul vero significato
di società partecipata. Infatti, se il riferimento è allo specifico
caso di cui sopra, l’obiettivo è quello di consentire ai Cittadini
di scegliere tra opzioni diverse ed aventi un unico denominatore
comune: il loro interesse. Nella seconda fattispecie, invece, la
finalità perseguita è quella di creare speciali contenitori ai
quali demandare la gestione di risorse pubbliche, lasciando
all’interno della struttura madre solo determinate attività che,
pur avendo diversa natura, hanno anche loro un denominatore comune o,
meglio, una destinazione univoca: il portafoglio del Cittadino. E la
prassi sembra essere sempre questa, altrimenti avrebbe un altro nome.
Infatti, quando si presenta l’opportunità di privilegiare
l’interesse del Cittadino si tende a ricorrere a qualsiasi
espediente per far sì che, grazie ad una diversa interpretazione del
medesimo concetto, tutto sia tutelato al di fuori di quella che era
l’originaria finalità. Un esempio, può aiutare a chiarire il
significato di questo pensiero. Con le cosiddette “privatizzazioni”
l’intenzione era quella di affidare ad un soggetto privato la
gestione di alcuni servizi (o la produzione di alcuni beni) affinché,
grazie ad una amministrazione più efficiente rispetto a quella
svolta dal settore pubblico, potesse scaturire una riduzione dei
costi e, quindi, a cascata dei prezzi. Ciò avrebbe consentito ai
Cittadini di avvantaggiarsi di tutti i benefici nascenti e
conseguenti. E’ inutile richiamare alla memoria come sia andata a
finire. Può essere sufficiente pensare alla gestione degli
acquedotti pubblici affinché ogni individuo di buona volontà possa
razionalmente trarre, nel suo intimo, le personali conclusioni.
Quindi, grazie a questa filosofia operativa è possibile influenzare
negativamente anche quella società partecipata che era stata ideata
con le migliori premesse. Arrivati a questo punto della riflessione
la deformazione professionale tende a chiamare in causa una simpatica
storiella. L’obiettivo è quello di agevolare la comprensione di
un fenomeno complesso, esplodendolo nelle sue elementari componenti,
utilizzando semplici operazioni di aritmetica di base. E come tutte
le favole che si rispettano, l’incipit
è noto a tutti. «C’era
una volta un piccolo regno dove risiedevano solo 100
anime. Una piccola comunità, molto attiva che, per effetto del loro
interagire quotidiano, si era resa colpevole di produrre rifiuti.
L’Amministrazione Reale, retta dal Sovrano di turno, aveva tra gli
obiettivi quello di garantire il benessere dei suoi Sudditi. Venne,
quindi, organizzata la raccolta dei rifiuti sul territorio del regno.
Ben presto, i ragionieri della corona si accorsero che l’attività
di pulizia comportava un costo pari a 1000.
E poiché in un recente passato era stata emanata una legge sovrana
che imponeva la copertura di questo onere al 100%,
il Re deliberò che ogni Suddito avrebbe dovuto pagare una “tassa
sui rifiuti”
pari a 10
(ossia 1000
diviso il numero di abitanti 100)».
Oggi questo “contributo”
pro-capite si chiamerebbe TARES,
ma poiché l’acronimo sembra indicare qualcosa che
l’Amministrazione Pubblica dà, mentre in realtà prende, nella
storiella si è preferito fare riferimento ad una volgare “tassa
sui rifiuti”,
perché di questo in fondo si tratta. Fin qui, quindi, nulla di
trascendentale. La favola ha saputo rendere tutto più chiaro,
semplice, lapalissiano. Ma il racconto non finisce qui, perché ogni
fiaba deve avere un lieto fine. «Nel
regno esisteva, in prossimità del lago, un’area che poteva rendere
il territorio più fiorente, generando ulteriori risorse da destinare
al benessere del popolo. Il Sovrano decise di destinare quell’area
ad un mercato, mettendo a disposizione 20
“posti banco”, che potevano essere noleggiati per la vendita dei
prodotti locali. L’iniziativa si prospettò un successo, ma presto
ci si rese conto che anche il mercato produceva rifiuti. Poiché la
fiera era ubicata nel regno, occorreva provvedervi. Sua Maestà,
oculatamente consigliato dai contabili del reame, decise di estendere
il contratto di pulizia anche al suolo destinato al mercato. Questa
pulizia implicava un costo supplementare pari a 300
e, non potendo esimersi dall’applicare la legge sovrana di
copertura al 100%,
il Monarca decise che, per un principio di equità e giustizia,
avrebbero dovuto farsene carico solo coloro che avevano preso a nolo
i “posti banco”, perché in fin dei conti erano responsabili in
prima persona della produzione di quei rifiuti specifici.
Pallottoliere alla mano, emerse che ogni utilizzatore del “posto
banco” doveva pagare una “tassa
sui rifiuti”
per 15
(dato da 300
diviso il numero dei “posti banco” 20)».
A questo punto della fiaba è necessario un breve riepilogo. Per chi
avesse perso il filo di Arianna, il costo totale del servizio di
pulizia è pari a 1300
ripartito equamente tra i Sudditi (1000),
tassati per 10
a testa, e coloro che prendevano a nolo i “posti banco” (300),
tassati per 15
a testa. Ed ecco, finalmente, arrivato il lieto fine. «Dopo
qualche tempo, l’attività del mercato non piacque al Sovrano
perché appesantiva la burocrazia del regno. Emise un editto con il
quale trasferì la gestione del mercato ad un contenitore magico
appositamente creato. Decise dall’alto della sua autorità di
chiamarlo “società
partecipata”.
All’Amministrazione Reale rimase l’obbligo di continuare a pulire
l’intero territorio perché anche l’area sulla quale insisteva il
mercato era di proprietà della corona e non della neonata creatura
della “società
partecipata”.
Grazie a quella “illuminata” decisione, i Sudditi dovettero farsi
carico dei costi di pulizia del territorio per 1300,
che nel rispetto della legge sovrana di copertura dei costi al 100%,
corrispondeva ad una “tassa
sui rifiuti”
pro-capite di 13
(dato da 1300
diviso il numero degli abitanti 100).
Un “magico”
aumento del 30%
rispetto alla precedente contribuzione individuale di 10.
E tutto ciò in virtù non di servizi migliori, ma grazie a quella
scatola magica della “società
partecipata”,
nella quale le decisioni avrebbero dovuto appartenere al popolo e
che, contrariamente alla generale percezione, si era tradotta in una
effettiva spoliazione di attività. Da quel giorno, grazie a Sua
Maestà, quei Sudditi smisero di vivere felici e contenti».
Ogni decisione pubblica dovrebbe sempre ispirarsi al principio del
“no taxation without
representation”,
per ricordare al popolo che ciò su cui un Sovrano non ha diritto di
chiedere, il Cittadino ha il diritto di rifiutare. Ed è proprio in
questo che consiste la vera società partecipata!
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: www.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 14 settembre 2013 con il titolo «L'opportunità di una società partecipata»
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