«Le
distanze ci informano che siamo fragili» (LE VIBRAZIONI, “Vieni
da me”, 2003). Mai prima d’ora il significato di simili parole è così
appropriato allo scenario del nostro Paese. L’uso poi dell’articolo plurale
rafforza ancor più la gravità del contesto nel quale viviamo ed in quello in
cui ci troveremo presto a risiedere. Un Paese che, avendo il vizio di affidare
a sterili norme le proprie sorti, incontra ancora notevoli difficoltà a
ragionare in termini comprensoriali. Un popolo che, in qualunque direzione
collochi la propria visione strategica, si limita sempre ad individuare un
campanile dal quale allontanarsi, anziché tentare di far fronte comune per
andare oltre le attuali difficoltà. D’altronde, se così non fosse, il titolo
della canzone accennata all’inizio rappresenterebbe un’occasione troppo ghiotta
per essere sfruttata. Meglio proseguire per la propria strada, in modo
autonomo, sperando che dall’affermazione della propria identità emergano quei
segni distintivi che un domani possano essere riconosciuti come un marchio di
successo. In un ambiente dove l’unione dovrebbe fare la forza, è preferibile
dotarsi di tanti eserciti di solitari dai quali, nel tempo, non potrà scaturire
altro che una moltitudine di sconfitti, anziché un unico vincitore. Diventa
così necessario possedere la consapevolezza che non è più sostenibile la
pretesa di albergare in un’isola felice per il resto dei propri giorni.
L’oceano che ci circonda è sempre più agitato ed è difficile prevedere la forma
e la forza che manifesterà la tempesta che minacciosa si avvicina
all’orizzonte. Occorre, pertanto, impegnarsi a gettare le basi di uno sviluppo
che, al tempo stesso, abbia capacità e prospettive diverse da quelle che ormai
appartengono alla storia. Infatti, se l’habitat
naturale è così disastrato non è sicuramente per volontà di coloro che sono
nella condizione di non poter disporre e decidere del proprio futuro, meno
ancora delle generazioni che si trovano ancora allo stato embrionale. Non
occorre andare lontano, è sufficiente guardarsi intorno, a 360 gradi, per
rendersi conto che quella perla preziosa che da sempre ha rappresentato la
stella polare del nostro paesaggio non ha più quelle potenzialità attrattive e
ricettive per continuare a brillare di luce propria. Sono necessarie altre
risorse in grado di generare energie alternative, portatrici di sostanze meno
inquinanti. E’ per questa ragione che la forza motrice deve emanare da soggetti
di elevata caratura morale e solidale, non da personaggi per i quali l’unico
obiettivo da perseguire durante la temporanea esistenza terrena consiste solo
ed esclusivamente nell’esaltazione del proprio ego. Tuttavia, anche il
principio della solidarietà, anziché materializzarsi in un fattore critico di
successo, continua a suscitare una preoccupante sensazione di turbamento ogni
volta che lo si sente nominare. Ciò si verifica perché il concetto qui
richiamato è spesso frainteso nella concezione di sottrarre qualcosa a chi lo
possiede per darlo a chi si trova nella condizione opposta. Non esiste peggiore
propaganda al significato di solidarietà che quello appena descritto! Non si
tratta di colpire chi ha saputo per propri meriti costruirsi nel tempo un
futuro migliore grazie a faticosi sacrifici, ma di sanzionare comportamenti di
abuso e sopruso che hanno consentito l’accumulazione di ricchezze danneggiando
coloro che ne avevano non tanto più diritto, ma merito. Ed il principio
meritocratico, cui dovrebbe ispirarsi l’azione di qualsiasi forma di governo,
non è quello che si riconosce in una posizione di forza o supremazia capace di
schiacciare le legittime aspirazioni di altri. Spesso e volentieri questa
qualità nasce e giace nelle componenti più deboli della società civile.
Operando in questa direzione sarà così possibile creare le premesse per assicurare
quel progresso sociale fatto anche, nei momenti più difficili, di politiche di
austerità e rigore, purché esse siano costruite nella condivisione ed
illuminate negli intenti. Come disse Aldo MORO, «non è il rigore che è intollerabile, ma l’ingiustizia. Nella serietà di
una grande e difficile prospettiva politica, la democrazia non appare un
ostacolo, ma una potente forza operosa nel senso di evoluzione sociale e
dell’eguaglianza. E questo è l’essenziale». Non servono, quindi, tanti
sforzi per individuare una via di uscita dalle attuali difficoltà. Il politico
di turno deve possedere quella abilità e sensibilità di mettersi al servizio
della collettività. E se l’attività svolta è improntata univocamente a rendere
un servizio al popolo, allora deve saperne trarre le opportune conseguenze
quando non è più in grado di offrire quel servizio pubblico che era stato
chiamato a produrre, sopportandone in prima persona gli oneri del fallimento e
non, come la cattiva abitudine ha insegnato, ribaltandoli su coloro che, al
contrario, avrebbero dovuto percepire i prospettati benefici. Sono ormai finiti
i tempi che si rispecchiano nello slogan
«comunque vada sarà un successo»
poiché se gli effetti della crisi economica devono essere sopportati da tutti,
i primi a farne le spese dovrebbero essere coloro che hanno contribuito a
provocarla o non sono stati capaci di attenuarne gli effetti dirompenti. Non è
più ammissibile un sistema nel quale è l’incapacità ad essere premiata, mentre
la meritocrazia affanna quotidianamente per trovare fonti di sopravvivenza.
Come si può, quindi, pretendere che siano sempre gli altri ad adempiere al
proprio dovere? E, nel contempo, come si possono avanzare pretese quando ci si
trova in un posizione debitoria? Occorre sforzarsi per ricostruire un contesto
sociale più equo nel quale la produzione o l’accaparramento della ricchezza non
si traduca in un dovere o diritto di pochi intimi. In caso contrario, non ci si
deve meravigliare se un domani ci troveremo di fronte a quel destino già
sperimentato in materia di politica estera da Alcide DE GASPERI, ossia quello
di girare «per il mondo povero e ramingo
e spesso col cappello in mano, nei momenti più tristi in cui ci si doveva
presentare innanzi ai vincitori». Esiste, però, una sostanziale differenza
tra la situazione di ieri e quella di oggi nelle parole del compianto statista.
All’epoca i vincitori erano coloro nei confronti dei quali il Paese si era
incamminato verso una guerra e l’aveva persa. Oggi il Paese rischia di perdere
un altro conflitto non verso terzi, ma nei confronti di sé stesso grazie a
politiche inadeguate perché mirate a salvaguardare i privilegi (non i diritti)
di chi senza merito si è arricchito a danno di altri. La ricchezza che nasce da
fattori diversi dal vantaggio competitivo dovrebbe trovare una redistribuzione
che tenga conto delle esternalità prodotte. In questo modo, sarà possibile
riequilibrare il benessere sociale a vantaggio di tutti, altrimenti il pericolo
è quello di generare ulteriori ingiustizie, spesso non visibili ad occhio nudo,
ma percepibili non appena si entra in contatto con la realtà. Ed è sufficiente
osservare ciò che accade in ogni ambito per rendersi conto che non esiste
alcuna differenza da chi per anni si è riconosciuto in una parte politica
piuttosto che nell’altra. Lo stesso DE GASPERI si era già accorto che «si parla molto di chi va a sinistra o a
destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire che bisogna
andare verso la giustizia sociale». Ma “andare avanti” non significa
perpetuare lo status quo, perché
significherebbe muoversi in senso orizzontale è creare le premesse per una
duratura dilatazione della ineguaglianza. Il movimento, nel senso di
cambiamento, deve orientarsi in altra direzione. A voler essere più precisi, «dobbiamo
andare verso l’alto verso una libertà maggiore, non scendere in basso verso la
schiavitù» (Luigi EINAUDI). Ed è proprio in questa discesa che si rischia
di camminare, fino a quando si vorrà continuare a cantare «Facciamo finta che … tutto va
ben, tutto va ben …» (Ombretta COLLI, “Facciamo finta che …!”, 1975).
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: www.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 29 giugno 2013 con il titolo «Poveri noi!»
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