Il giorno in cui mi sono laureato
in Economia e Commercio mi ero promesso che mai avrei prestato attività
lavorativa alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione. La formazione
acquisita in anni di studi economico/aziendali non riusciva a farmi comprendere
i meccanismi gestionali di un Ente Pubblico, la sua arretratezza culturale
verso regole di amministrazione efficaci, efficienti e altamente produttive di benefit
per la collettività. In realtà, in quel periodo, già
collaboravo con un Ente Locale presso il Servizio «Risorse Umane»
e, dopo un breve periodo di adattamento, avevo percepito come i dipendenti di
quell’ufficio, ma più in generale di tutta la struttura pubblica, svolgessero
la loro attività in modo routinario, senza avere il minimo interesse verso
eventuali miglioramenti o snellimenti da apportare ai processi di lavoro. L’elemento che catturò
particolarmente la mia attenzione era l’assenza di strumenti informatici
adeguati alle tecnologie dell’epoca. Questa situazione portava ad impiegare la
risorsa temporale a disposizione in modo pieno ed aveva la capacità di
obbligare il personale ad effettuare prestazioni di lavoro straordinario per
fronteggiare carichi di lavoro ai limiti dell’assurdo. Sembrava di essere tornato
indietro nel tempo, agli studi superiori, dove si insegnava dattilografia
utilizzando obsolete macchine da scrivere. Era difficile pensare ad un ufficio
pubblico dove gli applicativi Word ed Excel erano solo parole
sentite circolare tra gli adolescenti, che da un paio di anni utilizzavano i computer
come materia prima per il loro embrionale approccio al nuovo mondo della
videoscrittura e dei fogli di calcolo. Ho avuto l’opportunità, ma direi
anche la fortuna, di poter lavorare con colleghi splendidi sotto ogni punto di
vista, soprattutto quello umano. Molto mi hanno insegnato e credo anche di aver
donato loro qualcosa in termini di propensione alla continua ricerca del
miglioramento dei processi. L’introduzione del computer
in sostituzione delle ormai superate macchine per la videoscrittura, ha rappresentato
la chiave di volta per modificare radicalmente le modalità di svolgimento
dell’attività lavorativa. L’ufficio è stato travolto da una corrente di
ristrutturazione alla quale si sono nel tempo accompagnati risultati tangibili
e apprezzabili. E’ migliorata la qualità sia delle
prestazioni, sia dell’ambiente di lavoro, seppure, all’inizio, circoscritta
alle quattro pareti dell’ufficio. Sono riuscito a far comprendere l’importanza
dell’archivio cosiddetto “americano”, in altre parole il cestino della
carta straccia, come metodologia per sistemare tutta quella produzione
documentale inutile, ammucchiata grazie allo svolgimento di processi di lavoro
con strumenti antiquati, capaci solamente di generare attività ripetitive
ogniqualvolta un dito della mano aveva la sfortuna di capitare su un tasto
sbagliato della macchina da scrivere. Il miglioramento dei tempi
dedicati alle varie procedure ha contribuito a smantellare progressivamente il
lavoro arretrato accumulato negli anni. La direzione dell’ufficio è passata da
una logica di gestione per “priorità rincorse” a quella per “priorità trascorse”, ricercando
costantemente, durante le fasi istruttorie, ulteriori miglioramenti da
apportare ai procedimenti in corso. L’attenzione si è focalizzata non
solo sui processi innovativi, ma anche e soprattutto su quelli già sperimentati
e collaudati. In particolare, era necessario concentrarsi sugli aspetti
variabili, eliminando ridondanze e creando le premesse per una gestione
efficace ed efficiente della risorsa temporale disponibile. L’obiettivo dell’innovare i
processi era quello di far comprendere e condividere come la riduzione della
quantità del lavoro di ufficio non significasse “lavorare o produrre di meno”, ma migliorare la qualità,
l’efficacia, il controllo sistematico dei procedimenti, generando risorse
temporali da dedicare ad altre attività. E’ stata progressivamente superata
la logica di quel pensiero burocratico, che ancora oggi purtroppo circola tra
le mura delle Amministrazioni Pubbliche, fondata sul principio del “si è sempre fatto così e bisogna continuare
a fare così”, per orientarla verso soluzioni maggiormente aderenti
alle effettive esigenze. Nel 1922 Henry FORD disse: «Ho
visto grandi business diventare nient’altro che il fantasma di un nome perché
alcuni hanno creduto di poter continuare a gestire gli affari come avevano
sempre fatto; e anche se la gestione era stata la migliore in assoluto a quei
tempi, la supremazia consisteva nella capacità di essere al passo con i tempi,
non in una pedissequa imitazione dei tempi passati». Nonostante siano trascorsi oltre
ottant’anni, ciò che disse FORD è ancora di amara, se non triste, attualità, non
perché consiste in una ricetta ancora valida per risolvere i problemi
all’interno dell’Ente, ma perché si trovano ancora soggetti, che avendo il
potere decisionale, lo usano con miopia strategica, senza che si riesca a
comprendere l’utilità di un simile comportamento. E’ naturale che pur
pubblicizzando la ricerca di formule innovative, in realtà nessuno le vuole
finché qualcun altro le abbia già sperimentate con successo. Una scarsa
propensione al cambiamento non farà mai percorrere all’Ente, inteso come
insieme di persone, quel percorso culturale che lo renderà un domani percettore
dei bisogni latenti, prima del loro manifestarsi. Graham WILSON rilevò in un suo scritto
come «Il problema dei dirigenti superiori
è in parte l’assenza di qualunque idea alternativa. Spesso essi sono formati
con la convinzione che esiste un solo metodo per organizzare l’azienda e,
siccome, le loro idee si uniformano a questo modello, deve essere tutto giusto»
(Graham WILSON, «Making change happen», Pitman Publishing, 1993). La scarsa attenzione allocata da
parte del vertice alla risoluzione dei processi critici con strumenti
innovativi, compresa la creatività, impedisce al personale di sentirsi sia una
risorsa, sia parte integrante di una struttura il cui obiettivo principale dovrebbe
essere quello del soddisfacimento dei bisogni della collettività. Affinché il personale possa essere
considerato “risorsa umana”, lo si
deve coinvolgere nei processi decisionali, in modo che percepisca le mansioni da
svolgere come strategiche e finalizzate al perseguimento degli obiettivi.
Sembra un concetto banale, eppure sfugge alla presa con estrema facilità o
volontà. E’ sufficiente circoscrivere il
pensiero a coloro (e sono la maggioranza) che all’interno degli Enti Pubblici vengono
relegati a semplici esecutori materiali di decisioni prese dal vertice senza
conoscere né il target da realizzare,
né l’action che lo ha generato. Eseguono
il lavoro senza preoccuparsi minimamente della qualità finale perché ne ignorano
l’utilità, agiscono in una direzione solo perché è necessario “legare l’asino dove vuole il padrone”. La differenza tra un vertice
eccellente ed uno autoritario emerge nel momento in cui chiede di fare una cosa:
il primo fa nascere nel dipendente un sentimento di “senso di appartenenza”, mentre quello autoritario lo martella in
maniera ossessionante, preoccupandosi solo di far comprendere alla controparte
dove sta l’autorità. L’elemento che spesso il vertice
tralascia è il risultato che ottiene:
a) nel primo caso, il lavoratore è motivato a sviluppare
un’attività ed il risultato andrà oltre le aspettative perché durante lo
svolgimento si innescano meccanismi di autocontrollo delle prestazioni, che
consentono di realizzare un lavoro accurato e qualitativamente oltre quello che
inizialmente era stato richiesto;
b) nel secondo caso, il lavoro svolto sarà di
pessima qualità e privo di utilità.
La leadership dovrebbe essere
esercitata in maniera più illuminata e non affliggendo i dipendenti con
irritanti toni inquisitori. Ritengo utile, lasciando a ciascun
lettore l’interpretazione, riportare alcuni contributi di manager di successo, che hanno percepito l’importanza della
strategia motivazionale:
a) Ralph STAYER della JOHNSONVILLE FOODS disse: «Le caratteristiche che mi hanno portato
al successo, il mio controllo centralizzato, il mio comportamento aggressivo,
le mie procedure di lavoro autoritario stavano creando un contesto che mi ha
reso insoddisfatto. Se volevo migliorare i risultati dovevo aumentare il
coinvolgimento dei dipendenti nell’attività»;
b) Jim WESSEL della BECTON DICKINSON affermò: «Abbiamo dovuto far superare la concezione
secondo la quale “se non ho il controllo, allora deve esserci il controllo”.
Abbiamo impiegato un anno per renderci conto di ciò che stava avvenendo, ma
alla fine grazie anche al sostegno ricevuto, i dirigenti hanno capito di dover
delegare autorità e non solo attività»;
c) Robert HASS della LEVI STRAUSS evidenziò
come «In un ambiente aziendale sempre più
incostante e dinamico, i controlli devono essere concettuali. Sono le idee a
controllare, non i dirigenti in possesso di autorità».
I problemi esistono ed
esisteranno sempre. Vanno affrontati con spirito critico e costruttivo
accettando anche soluzioni culturalmente lontane dalle convinzioni di ognuno.
Ogni procedimento deve essere affrontato come nuovo, anche se consiste in
attività di routine o non si ritiene più migliorabile. Occorre convincersi che quella
che oggi viene reputata “eccellenza”, domani può essere considerata “mediocrità”,
con la consapevolezza che in poco tempo ciò che era fatto “a regola d’arte”
potrebbe essere già diventato “inaccettabile”. E’ inutile risolvere il problema
della motivazione del personale con tecniche di dumb sizing, ossia una
drastica riduzione dell’organico. Pensare di curare la patologia in questa
direzione sottovaluta le pesanti conseguenze che genera: il morale di quelli
che rimangono collassa attraverso un mix
di stress, frustrazione, diminuzione
di creatività e relativa disaffezione all’Organizzazione. Sono pochi gli accorgimenti da
adottare per motivare i dipendenti, mentre è sufficiente fornire loro una
valutazione delle prestazioni non equa per andare nel senso opposto, tale da
rendere poi irreversibile un integrale recupero. «La valutazione della performance viene dalla persona che più di tutte
può incidere sulle emozioni di un dipendente: il suo capo. E questo cambia
significato di tutto quanto. Quel documento può modificare la realtà: il buono
può diventare cattivo, il sopra può diventare sotto e l’intelligente può
diventare uno stupido. Le valutazioni formalizzate delle prestazioni sono un
retaggio del vecchio west: siete spacciati se dovete vedervela con una giuria
corrotta e un giudice favorevole all’impiccagione» (William LUNDIN &
Kathleen LUNDIN, «Lavorare per un capo non aperto», Franco
Angeli, 2000).
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice n° 10/Ottobre 2006 con il titolo «Demotivazione»
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