Da un paio di mesi fioccano sui social forum gli inviti a
partecipare a gruppi che inneggiano ad isolare la Cina e, quindi, a boicottarla
non acquistando i prodotti provenienti dal quel paese asiatico. Ma davvero la
Cina va considerata la madre della crisi economica? O, forse, dovremmo indagare
a fondo sul perché le nostre imprese preferiscono localizzare la produzione in
estremo oriente? In altre parole, la diatriba dovrebbe aggiustare la mira,
spostandola dal consumo finale di prodotti al processo di produzione. Infatti,
è sufficientemente chiaro che quando un'impresa decide strategicamente di
delocalizzare la produzione all'estero, lo fa per il semplice motivo che i
costi da sostenere sono sensibilmente inferiori. Operando in tal senso potrà
riuscire a sopravvivere nella giungla concorrenziale, anziché fallire
miseramente, soffocata dalla miriade di cavilli burocratici imposti
all'imprenditoria. Il problema, in altri termini, dovrebbe focalizzarsi sui
prezzi dei prodotti nazionali "made in China" venduti in
Italia. Se la loro produzione avviene a costi decisamente ridotti, altrettanto
"stracciati" dovrebbero essere i prezzi di vendita. E' difficile,
in un contesto simile, comprendere le ragioni di chi si lamenta che le tasse
imposte dal Governo sono troppo alte, ma non adotta lo stesso comportamento
quando deve giudicare quelle imposte dal Settore privato (ossia i prezzi). Su
questo aspetto c'è una differenza sulla quale occorre riflettere. Infatti,
mentre le tasse servono anche per mantenere in vita uno stato sociale che tutela
i più bisognosi, i prezzi servono solamente per assicurare un egoistico
profitto agli imprenditori. Ciò non vuole assolutamente significare che una
impresa privata non abbia il sacrosanto diritto di conseguire un guadagno dallo
svolgimento della sua attività. Esiste, però, una sostanziale differenza tra
"profitto" e "speculazione", specie se
condotta a scapito di coloro che non possono intervenire nel processo
decisionale o sono costretti solo ed esclusivamente a sopportarne le
conseguenze. Alla luce di questa riflessione, la Cina non solo attira su di sé
un ingente volume di investimenti stranieri. Inoltre, mentre il paese asiatico
agisce, legittimamente, per tutelare i propri interessi, l'Italia sta
passivamente ad aspettare l'arrivo di tempi migliori. Tuttavia, il benessere
nazionale non è una manna proveniente dall'alto dei cieli, ma il risultato di
sacrifici fatti di duro studio e lavoro. Se il nostro Paese non riesce a
esportare i propri prodotti, come può pretendere di venderli sul mercato
locale? Forse, scendendo nel profondo della questione, è possibile individuare
una ragione. Analizzando la situazione del paese asiatico, è facile accorgersi
come sia presente in tutto il mondo non solo dal punto di vista produttivo, ma
anche sotto il profilo dell'acquisizione di abilità, conoscenza
ed esperienza. I migliori siti universitari pullulano di studenti con
gli occhi a mandorla affamati di sapere ed apprendere. In altri
termini, sono consapevoli che il futuro apparterrà a coloro che credono nella
diversità culturale e solo con la conoscenza si potrà garantire un benessere
migliore. Guardando in casa nostra, è facile individuare come l'andazzo
generale dei giovani sia improntato al menefreghismo più radicale, fatto di passeggiate
ripetitive di pomeriggio nei vicoli oppure di soste permanenti davanti ad un pub,
con il bicchiere in una mano e la sigaretta nell'altra, a gareggiare su chi
esprime la banalità più assurda, piuttosto che trascorrere il tempo libero sui
libri di scuola per assicurarsi un lavoro ed una prospettiva migliore. Se
questa è la fotografia dell'Italia, viene da domandarsi: è veramente tutta
colpa della Cina?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Nuovo Picchio n° 10/Ottobre 2012 con il titolo «Verso la società dell'ignoranza»