Affrontare un argomento di così forte attualità, senza correre il
rischio di calamitare qualche critica, non è compito di facile soluzione, in
quanto occorre misurare con la dovuta attenzione la giusta dose di pensiero
razionale da miscelare con quella a contenuto prevalentemente emotivo. Quando,
poi, l’intenzione è quella di scrivere qualcosa che sembra proiettarsi
controcorrente, si genera automaticamente un’esplosione di energie mentali con
la finalità di fare emergere le potenzialità nascoste in un fenomeno, anche se
la minaccia cui si va incontro è quella di innescare una reazione a catena, al
termine della quale l’intorno circostante ha subito dei mutamenti,
trasformandosi in un ambiente ancora più ostile. Nonostante tutto, accettare
una sfida così delicata non costituisce peccato, anche perché, avviare una
discussione oggettiva su una tematica ampiamente consultata nell’enciclopedia
amministrativa, è sempre una fonte preziosa di vitalità intellettuale. L’obiettivo,
quindi, che ci si prefigge di raggiungere è quello di spingere il lettore verso
una forma di rilassamento per migliorare, riducendo la tensione accumulata, la
comprensione critica dei concetti presentati. Infatti, se colto da un
improvviso raptus di agitazione,
limitasse la sua visione prospettica alla semplice interpretazione letterale
del titolo, potrebbe farsi un’idea sbagliata sull’approfondimento, rispetto a
quello che, al contrario, manifesta. Il “nullafacente”:
un termine sverginato agli occhi dell’opinione pubblica, che si presenta con
prepotenza sulla scena in tutte le occasioni dove l’oggetto del contendere
affronta il brand “Pubblica Amministrazione”. Un segno
distintivo che, anziché consistere in un vantaggio competitivo utile alla
crescita del Paese, si configura come la principale causa del drenaggio di
ricchezza nazionale, perché i costi sostenuti per fornire prestazioni alla
collettività sono superiori al valore contenuto nelle stesse. L’argomento, che
oggi è quotidianamente agli onori della cronaca, ha visto la luce oltre un anno
fa, grazie all’uscita nelle librerie dell’affascinante opera scritta dal
Professor Pietro ICHINO («I
nullafacenti», Mondadori, 2006). Un libro che, con una chiarezza
terminologica fuori dal comune, ha messo in evidenza un fenomeno già conosciuto
(e volutamente ignorato) all’interno della Pubblica Amministrazione, ma,
soprattutto, portato a conoscenza di quei soggetti che con il Sistema Pubblico
sono costretti a rapportarsi. Una locuzione, quella coniata dal giuslavorista,
a forte impatto emozionale, un vero e proprio “warning” con il quale
l’autore concentra costantemente gli sforzi per trovare una soluzione condivisa
a quella che, come recita il sottotitolo, costituisce la «più grave ingiustizia della
nostra Amministrazione Pubblica». Oggi, l’espressione gettonata che ha
messo in allarme i dipendenti pubblici, può considerarsi migliorata e
aggiornata, perché, come per qualsiasi processo relativo all’evoluzione della
specie, anche la terminologia primitiva si è perfezionata, portando a
individuare tre tipologie di soggetti che possono rientrare nella più ampia
famiglia dei “nullafacenti”. Quindi,
può essere utile operare la seguente distinzione:
a) nullafacente
“puro” (o “di razza”): ossia il vero parassita che infesta gli ambienti
pubblici, per il quale l’unico sistema di valutazione idoneo per qualificarlo è
quello di derivazione anglosassone, che fonda le sue radici nell’elephant
test. Si tratta, come suggerito dal Professor Pietro ICHINO, di un esame che «i
giuristi anglosassoni contrappongono alle nostre disquisizioni bizantine, nei
casi in cui non ce n’è alcun bisogno: se vedi un elefante, non occorrono
tecniche di valutazione sofisticate per qualificarlo come elefante» (Pietro
ICHINO, «I nullafacenti», Mondadori, 2006). Appartiene a questa
categoria il cosiddetto “fannullone”,
nel cui DNA non è presente alcuna traccia di propensione all’attività
lavorativa;
b) nullafacente
“ibrido”: in altre parole un soggetto che, erroneamente, potrebbe
essere considerato alla stregua del “fannullone”. Si distingue,
tuttavia, per essere dotato di un patrimonio genetico sano sotto il profilo
della dedizione al lavoro, che, purtroppo, ha subito alterazioni a causa della
permanenza prolungata in un ambiente culturalmente avverso. Rientra in questa specie
quel lavoratore dolosamente mortificato, demansionato, umiliato e
professionalmente deprezzato, minandone la credibilità fondata sulla conoscenza
e competenza, con l’obiettivo di escluderlo dal sistema organizzativo. Aderisce
a questa classificazione il cosiddetto “mobbizzato”,
la cui vitalità è stata ridimensionata in modo da rendere sterile il tasso di
produttività;
c) nullafacente
“embrionale”: vale a dire un
individuo che per meritocrazia è entrato a far parte della numerosa schiera dei
dipendenti pubblici e, quindi, pur essendo dotato di quell’entusiasmo
necessario per migliorare lo status quo,
è stato sottoposto, dalla nascita professionale all’interno della Pubblica
Amministrazione, alla terapia del “si fa
sempre così e bisogna continuare a farlo”. Si tratta di quel dipendente
che, convinto dei processi di miglioramento da apportare all’Ente Pubblico, si
è rivelato ben presto un personaggio scomodo al vertice
burocratico/amministrativo e, conseguentemente, condannato ad essere inoperoso.
Rientra nel concetto il cosiddetto “demotivato”, in quanto avendo la
capacità di trovare soluzioni alle diverse criticità gestionali nell’esclusivo
interesse dell’Ente, non si è fatto distrarre da altre forme di pruriti, inibendo
quel fattore che stimola il rendimento.
Mentre nei confronti della prima categoria di “nullafacenti”, in
altre parole i “fannulloni”, non
bisogna farsi contagiare dalla commozione che viene loro riservata da chi ha il
potere di prendere provvedimenti, quelli rientranti nelle altre due fattispecie
costituiscono una “risorsa latente”
da motivare e valorizzare, anziché destinarla a ricercare forme di sviluppo
dell’arte dell’ozio per far passare la giornata lavorativa. Si tratta, quindi,
di quel prezioso capitale intellettuale in grado di apportare sensibili
miglioramenti al tasso di produttività e che, al contrario, viene lasciato
nella naftalina (nullafacente “ibrido”)
o nell’incubatrice (nullafacente “embrionale”)
perché la frustrazione del vertice impedisce loro di sprigionare quelle
professionalità capaci di far cambiare marcia al passo burocratico che
caratterizza il cammino lungo il percorso di sviluppo della Pubblica
Amministrazione. Le recenti direttive del Ministro Renato BRUNETTA emanate
nella direzione di migliorare la qualità sia del lavoro alle dipendenze della
Pubblica Amministrazione, sia, soprattutto, dell’outcome erogato alla collettività, unitamente a quelle proposte dal
giuslavorista Pietro ICHINO sono considerate, forse, troppo “avanti” rispetto al livello culturale
esistente e, per questo, non comprese nel loro reale significato. Purtroppo,
occorre prendere coscienza che quando si propone una novità, qualunque ne sia
il contenuto, il risultato induce sempre una buona dose di resistenza. Di fronte
all’orientamento al cambiamento che ha investito la Pubblica Amministrazione,
si possono percepire due tipologie di sensazioni:
1)
la
prima, di “speranza”: nel senso che
finalmente qualcuno ha avuto il coraggio e il sostegno di adottare delle
decisioni in materia di lavoro all’interno della Pubblica Amministrazione per
allontanare quelle “cariatidi” che
ostacolano il processo di miglioramento funzionale dell’Organizzazione
Pubblica. Sicuramente occorre ancora trovare quel punto di equilibrio che
consente di interpretare nella direzione voluta le intenzioni di fondo che,
forse, non traspaiono dalle direttive;
2)
la
seconda, di “preoccupazione”: poiché
nel nostro Paese accade spesso che ogni norma partorita per perseguire una
finalità, è sempre distorta in sede applicativa, con la conseguenza di
allontanare l’intenzione del legislatore dalla realtà che sarà messa in
pratica. Così facendo, il pericolo sarà quello di eliminare dalla Pubblica
Amministrazione proprio quelle risorse
latenti che, in quanto soggetti scomodi, viene loro imposta l’emarginazione
spingendoli ad entrare nel concetto di “nullafacenti”.
Ciò che forse inquieta le risorse umane intellettualmente oneste che si
trovano, per cause non dipendenti dalla loro volontà, a vegetare in questa
situazione, è che al termine del processo di riforma della Pubblica
Amministrazione i cosiddetti “fannulloni”
siano confusi con quelli che, non essendo attratti da interessi secondari,
costituiscono la vera eccellenza. Pertanto,
i provvedimenti di lotta contro il “nullafacente” non devono essere
indirizzati solo alla base, per avere la certezza del successo, ma anche
recapitati al vertice, perché il danno indotto da effetti persecutori ha
incidenza negativa sulla produttività dell’Ente e si propaga sui costi della
Struttura Pubblica. Se questo è lo stato dell’arte, allora le prospettive
formulate non sono poi da considerare così “avanti” poiché già due
secoli fa il filosofo tedesco Arthur SCHOPENHAUER si era espresso
affermando: «Dovunque e comunque si
manifesti l’eccellenza, subito la generale mediocrità si allea e congiura per
soffocarla».
Autore: Emanuele
COSTA
Pubblicato su:
Semplice n° 9/Settembre 2008 con il titolo «Nullafacenti:
il valore di una risorsa latente»
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