Premessa
Durante la mia permanenza in
Inghilterra, presso la prestigiosa University
of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento
su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si
tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler
ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa,
che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da
vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia
quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è
quello della cosiddetta “globalizzazione”,
vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come
la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica.
Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre
coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali
relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su
occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la
speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali
opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.
Abstract
La teoria del commercio
internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua
produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo
periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente,
le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle
politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo
è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la
principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un
ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.
Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione -
3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni?
- 4. Conclusioni.
(segue)
3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari
interni?
Da un punto di vista generale, la
globalizzazione può avere un impatto positivo sugli scambi grazie ad un
maggiore assortimento di merci/prodotti (variety
of goods) oltre, ovviamente, a nuove opportunità di business. Una di queste è rappresentata dall’offshoring, che consente alle imprese di spostare parte della loro
attività all’estero in quanto più conveniente in termini di costi di
produzione. In particolare, i paesi poveri hanno un vantaggio comparativo nel
mercato del lavoro ed il loro settore industriale è prevalentemente labour intensive, ossia caratterizzato
da un massiccio utilizzo di manodopera. Alla luce questa breve premessa, nei
paesi industrializzati l’offshoring interessa
da vicino, in linea di principio, i lavoratori non qualificati (unskilled workers) a causa dei salari più
bassi esistenti nei paesi meno sviluppati. E’ questa una delle ragioni per cui
si ritiene che l’offshoring generi
effetti negativi sull’occupazione, mentre, in realtà, potrebbe anche impattare
positivamente nei settori che usano forza lavoro qualificata. In altre parole,
per valutarne la bontà, si dovrebbe considerare l’effetto netto sul livello
occupazionale. Sotto il profilo teorico, appare ovvio come il trasferimento di
un processo produttivo in un paese straniero provochi un aumento della
disoccupazione. Questo risultato, però, deve essere analizzato sia nel breve
periodo, sia nel lungo. Nel primo caso, quando un lavoratore perde il lavoro, non
è detto che ne trovi immediatamente un altro, mentre nell’altra ipotesi
potrebbe essere assunto in un settore in espansione. Da un’altra angolazione,
un paese che trasferisce parzialmente la produzione all’estero può concentrarsi
su quella parte che mantiene all’interno dei confini. Quindi, la
specializzazione può portare effetti positivi in termini sia di produttività del lavoro, sia di efficienza
produttiva. Una maggiore produttività abbatte i costi unitari di produzione e,
se le imprese riducono anche i prezzi, è possibile incrementare le vendite e, a
cascata, anche l’occupazione. In definitiva, l’offshoring genera effetti diretti e indiretti Gli effetti diretti portano a:
a) ridurre l’occupazione per quella parte di
produzione trasferita all’estero;
b) aumentare
l’occupazione per quella parte mantenuta sul mercato domestico.
Gli effetti indiretti consistono:
a) nella fornitura di beni/servizi a costi più bassi
rispetto a quelli di altri settori, con conseguente espansione del loro business e aumento di occupazione;
b) nella
riduzione dei prezzi, consentendo di incrementare i consumi e,
conseguentemente, la domanda interna, la produzione e l’occupazione.
Quindi, l’impatto finale
sull’occupazione dipende sia dal cosiddetto “effetto sostituzione” (generato dall’allocazione di forza lavoro),
sia dall’altrettanto noto “effetto reddito”
(indotto da economie di scala). Una citazione del Premio Nobel americano Paul
KRUGMAN può aiutare a comprendere meglio l’idea generale: «Dal 1970 a oggi la produzione nell’industria manifatturiera è grosso
modo raddoppiata; ma, a causa dell’aumento di produttività, l’occupazione è
leggermente diminuita. Anche nel campo della fornitura di servizi la produzione
è quasi raddoppiata, ma la produttività è aumentata di poco, mentre la forza
lavoro impiegata è cresciuta del 90%. Globalmente nell’economia americana si
sono creati più di 45 milioni di posti di lavoro» (“The Accidental Theorist”, W. W. Norton & Company Inc.,
1998). L’economista tedesco Holger GÖRG (“Globalization,
Offshoring and Jobs”, International Labour Organization/World Trade
Organization, 2011), prendendo in considerazione i risultati di diverse
ricerche, ha confermato il punto di vista teorico. In altri termini, nel breve
periodo l’offshoring provoca un
aumento della disoccupazione a causa del trasferimento all’estero della
produzione di quei settori che utilizzano intensamente manodopera, mentre nel
lungo periodo la disoccupazione si contrae in quanto i lavoratori hanno la
possibilità di essere riassunti grazie a nuove opportunità lavorative. Inoltre,
se si verificano anche gli effetti indiretti l’occupazione può crescere ulteriormente.
Gli studiosi Mary
AMITI and Shang-Jin WEI (“Fear of Service Outsourcing: Is it
Justified?”, Economic Policy, Vol. 20, n° 42, 2006) hanno, però, sostenuto
la necessità che un’analisi empirica debba prendere in considerazione non
solo un periodo di tempo più esteso, ma anche diversi settori produttivi (sia in
espansione, sia in recessione), altrimenti il rischio è quello di non trovare robusti
supporti a sostegno della tesi sugli effetti generati dall’offshoring. In ogni caso, GÖRG ha preso in considerazione diversi
lavori pubblicati sull’argomento ed i risultati empirici sembrano confermare i
positivi effetti in termini occupazionali dell’offshoring, anche se la ricerca si è limitata ad un orizzonte
temporale ristretto. Per questo motivo, non sempre è stato possibile esaminare
gli effetti nel breve e nel lungo periodo. In aggiunta, nel corso degli anni,
la tecnologia ed i trasporti sono cambiati sensibilmente, al pari delle
preferenze dei consumatori. Anche queste variabili, possono avere riflessi positivi
o di segno contrario sull’occupazione oltre ad essere utili per spiegare
potenziali collegamenti con l’offshoring.
Infatti, se in passato la maggior parte dei servizi non erano oggetto di
scambio, oggi possono essere commercializzati grazie alla tecnologia.
Analizzando l’impatto dei servizi sull’occupazione, Rosario CRINÒ (“Employment
Effects of Service Offshoring: Evidence from Matched Firms”, Economic
Letters, Vol. 117, n° 2, 2010)
ha sottolineato come gli effetti sull’occupazione per i lavoratori non
qualificati non siano rilevanti, mentre sono positivi per quelli altamente
qualificati, grazie alla loro specializzazione. Considerando, invece, l’impatto
della tecnologia, Ann HARRISON e Margaret McMILLAN (“Offshoring Jobs? Multinationals and U.S.
Manufacturing Employment”, The Review of Economics and Statistics,
Vol. 93, n° 3, 2011) hanno messo
in evidenza come la riduzione dell’occupazione nelle multinazionali americane sia
stata causata dalla tecnologia, che ha sostituito i lavoratori, e non dall’offshoring. Per valutare l’impatto dell’offshoring su occupazione e salari nel
settore manifatturiero, i due ricercatori hanno scoperto che i lavoratori:
a) nei paesi a basso reddito sono un sostituto degli
impiegati americani. Quindi, se l’occupazione nei paesi in via di sviluppo
aumenta, i salari negli Stati Uniti si riducono al pari di quanto avviene per
l’occupazione;
b) nei
paesi ad alto reddito hanno, al contrario, un effetto positivo sull’occupazione
americana. Quindi, se i salari in questi paesi crescono, l’occupazione
americana aumenta.
Inoltre, Robert C. FEENSTRA e Gordon H. HANSON (“The
impact of Outsourcing and High Technology Capital on Wages: Estimates for the
United States 1979-1990”, Quarterly Journal of Economics, 1999)
hanno esplorato l’impatto dell’offshoring
e della tecnologia sui salari americani. Poiché la tecnologia incide sui prezzi
di produzione, una riduzione dell’occupazione può dipendere sia dallo
spostamento della produzione all’estero, sia dalla sostituzione dei lavoratori
con la tecnologia. Lo studio mostra che sia la tecnologia, sia l’offshoring incidono sui salari positivamente,
anche se il contributo fornito dalla tecnologia è superiore a quello dell’offshoring. E’ da precisare che i due
ricercatori hanno preso in considerazione la tecnologia in termini di spesa,
anche se questa unità di misura può essere non appropriata. Infatti, una spesa
in tecnologia più alta significa che il costo è aumentato in termini assoluti,
ma non prova che il livello della tecnologia è migliorato. Altri autori (nello
specifico, David
HUMMELS, Rasmus JØRGENSEN, Jacob MUNCH and Chong XIANG, “The Wage
Effects of Offshoring: Evidence from Danish Market Worker-Firm Data”, Working
Paper, 2012), utilizzando informazioni del mercato danese, hanno confrontato
gli effetti sui salari indotti dall’offshoring e dalle esportazioni. In
particolare, operando una divisione tra lavoratori qualificati e non
qualificati, gli studiosi hanno evidenziato che:
a) l’export
porta ad un incremento occupazione per entrambe le categorie di lavoratori;
b) l’offshoring genera una riduzione dei
lavoratori non qualificati e un incremento di quelli qualificati.
Riepilogando quanto finora
esposto emerge che gli studiosi tendono spesso a considerare l’offshoring solo in termini di posti di
lavoro persi o, alternativamente, a prendere in considerazione gli effetti
negativi. Essi hanno associato l’offshoring
al tasso di disoccupazione nei settori che utilizzano lavoratori non
qualificati, esaminando come l’impatto possa influenzare produttività, produzione,
costi, prezzi, consumo e, in
ultima analisi, salari. Tuttavia, i
lavori oggetto di interesse in questa ricerca hanno tralasciato alcune variabili
economiche che possono influenzare i salari:
a)
profitti;
b)
istruzione;
c)
immigrazione;
d)
politiche governative;
che, mutatis mutandis, insieme
agli effetti dell’offshoring possono
bilanciare le conseguenze negative sui salari o contribuire a peggiorarle. In
primo luogo, infatti, l’offshoring
consente alle aziende nostrane di ridurre il costo del lavoro non qualificato e
aumentare la produttività di quello qualificato. Grazie a questa combinazione,
le imprese possono conseguire profitti più elevati, che possono essere
alternativamente usati dagli imprenditori per:
a) remunerare gli azionisti, senza alcun effetto
diretto su occupazione e salari;
b) aumentare
l’occupazione, al fine di incrementare la produzione;
c) erogare un salario premio ai dipendenti per effetto
dell’aumentata produttività, con effetti positivi sui salari;
d) mixare
tra loro le diverse alternative.
In definitiva, solamente gli
ultimi due casi possono registrare benefici sui salari. In secondo luogo, la
teoria economica tende a collegare l’elevato livello di istruzione con analoghe
abilità e, conseguentemente, un minore livello di istruzione con una bassa
competenza. Alla luce di ciò, il livello di istruzione, paradossalmente,
potrebbe avere un impatto:
a) negativo sui salari dei lavoratori qualificati, poiché
l’offerta di lavoro specializzato aumenta. In questa circostanza l’occupazione
potrebbe ridursi;
b) positivo
sui salari dei lavoratori non qualificati. Infatti, se i lavoratori qualificati
sostituiscono quelli non qualificati nelle produzioni che richiedono basse
abilità, la produttività aumenta al pari dei salari. In questo caso, la
disoccupazione potrebbe peggiorare. Si tratta del cosiddetto “paradosso dell’istruzione”, che si
verifica quando lavoratori qualificati sono remunerati con salari più bassi.
In terzo luogo, sotto il profilo
teorico, l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo è associata a lavoratori
non qualificati, mentre quella originata dai paesi industrializzati a lavoratori
altamente qualificati. Quindi, se l’apertura al commercio internazionale
significa assenza o minori barriere nel mercato del lavoro, ciò potrebbe
portare ad una riduzione dei salari in quanto l’offerta di lavoro per la
manodopera non specializzata aumenta, spingendo verso il basso i salari. Infine,
ma non per questo meno importante, le politiche governative possono tamponare
gli effetti negativi dell’offshoring
sul mercato del lavoro, con riferimento, a titolo esemplificativo e non
esaustivo, a:
a) profitti,
aumentando la tassazione di quelli non reinvestiti nell’occupazione;
b) istruzione, usando la politica fiscale
per equilibrare l’offerta di lavoro non qualificata e qualificata;
c) immigrazione,
riducendo i permessi lavorativi per i migranti provenienti dai paesi in via di
sviluppo.
(continua)
Author: Emanuele COSTA
Published by: Bacherontius n° 03/Ottobre 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari? (terza parte)»