Tra le eccellenze, ormai sempre meno, che
contraddistinguono il Bel Paese dal resto del mondo, la meritocrazia non ne ha
mai fatto parte. Al pari della disoccupazione giovanile, essa rappresenta una
piaga che grava sull’intera società. Ad onor del vero, i due fenomeni viaggiano
di pari passo. E non si tratta di una coincidenza! In un sistema economico
sempre più in crisi, le risorse umane (se valorizzate) si configurano come uno
degli investimenti con il più alto tasso di rendimento e non, come si tende a
far credere, una sterile voce di costo che grava sui bilanci delle imprese.
Eppure in molti sostengono questa seconda tesi. Le ragioni possono ascriversi
alle deludenti performance del “Made in Italy” in molti settori
trainanti il Prodotto Interno Lordo. Se un’azienda incontra difficoltà a
sopravvivere sul mercato forse è perché i prodotti non hanno le caratteristiche,
in termini di rapporto qualità/prezzo, per reggere il confronto internazionale
o soddisfare le esigenze dei consumatori. Oppure il management non è riuscito a formulare appropriate strategie di marketing o, peggio ancora, è remunerato
profumatamente per politiche di impresa non di successo. Sicuramente non perché
il costo del lavoro è elevato! Se così fosse, infatti, andrebbe chiarito perché
i dipendenti incidono negativamente sui risultati aziendali mentre i manager no. Si tratta pur sempre di
stipendi, variano solo le persone che li percepiscono. A conti fatti, però, a farne
le spese sono sempre i primi, colpevoli di costare troppo. Da qui l’esercito di
disoccupati che, quotidianamente, arruola nuove leve. Il problema, quindi, va ricercato
altrove. Non è certo rappresentato dalla massa di coloro che tentano, senza
successo, di inserirsi nel mercato del lavoro, bensì è costituito da quelli che
hanno avuto l’opportunità, non dipendente dal merito, di trovare un impiego grazie
a meccanismi che ruotano intorno al fenomeno della raccomandazione. Infatti, se
la questione fosse lo scarso appeal
della produzione domestica ciò è da imputare ai lavoratori che contribuiscono a
quel risultato e non certo a quelli che non svolgono un ruolo attivo nel
processo di produzione, ossia i disoccupati. Se il
mercato del lavoro operasse nel rispetto di parametri meritori, i migliori non
avrebbero difficoltà a trovare un’occupazione perché si instaurerebbe una sana
competizione tra imprese (non necessariamente sul fronte retributivo) orientata
a fare incetta di persone di valore. Ma i cosiddetti “talenti” hanno qualità
scomode: pensano e non solo eseguono. Ed è questa la qualità che mina alla base
la rete dalla quale nasce e si nutre la raccomandazione. Se poi si aggiunge che
i veri talenti sono anche indipendenti intellettualmente, nel senso che non
hanno bisogno di sponsor per vedersi
aprire la porta del mercato del lavoro, emerge da sola la ragione per cui
l’unica alternativa alla disoccupazione giovanile in Italia sia quella di
andare a rinforzare le fila dei cervelli in fuga.
Author: Emanuele COSTA
Author: Emanuele COSTA
Published by: Il Nuovo Picchio n° o4/Aprile 2016 con il titolo «Meritocrazia? No grazie, siamo in Italia»