Non è mai stata mia
intenzione prendere posizione su un argomento così delicato,
sensibile e toccante come quello che, in questo momento, riguarda
l’immigrazione. Più che l’esigenza di voler, a tutti costi,
inflazionare ancor più i commenti rilasciati da personaggi
sicuramente più autorevoli e preparati di chi scrive, tenterò di
soddisfare le numerose richieste che, sul tema, mi sono pervenute.
Cercherò, quindi, di fornire un modesto contributo, che mi auguro
possa risultare equilibrato, sperando, nel contempo, di suscitare
qualche critica costruttiva volta ad accendere un coscienzioso
dibattito su una materia di così ampia portata. Per chi ha vissuto,
in prima persona, la caduta del Muro di Berlino e gli eventi
storico-politici che hanno accelerato lo smantellamento della
cosiddetta “cortina di ferro”, cui ha fatto seguito la
dissoluzione del regime in vigore in quella che, una volta, era
additata come Europa dell’Est, è pacifico che la memoria resusciti
pensieri e ricordi di quell’incredibile ed indimenticabile periodo,
con un distinguo rispetto al fenomeno attuale. All’epoca, infatti,
più che una vittoria dell’Ovest sull’Est o, in alternativa, del
libero mercato sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione, si è
vissuto ed affrontato un momento di euforia a braccia aperte, ben
disposte a sviluppare una politica di accoglienza nei confronti dei
popoli dell’Europa orientale in fuga, non da una guerra, ma da un
regime che li aveva privati delle più elementari libertà
fondamentali, ma anche costretti a vivere in condizioni di “povertà”
rispetto alla ricchezza “drogata” dal debito dei popoli
occidentali. Eppure, il ricordo è ancora molto limpido: sono
indelebili le immagini di quelle “carrette del mare” stracolme
all’inverosimile di persone che, dai paesi balcani affacciati sul
Mediterraneo cercavano rifugio al di là delle proprie coste, così
come è indimenticabile la macchina organizzativa messa in piedi per
accogliere i “rifugiati europei” e la gara di solidarietà fra
coloro che offrivano aiuto. Ma la storia, come sempre accade, tende
ad insegnare il peggio e dimenticare l’esperienza migliore. Oggi, a
fallire non è un sistema economico rispetto ad un altro, ma tutta
quella cultura europea che, dal dopoguerra ad oggi, è stata
costruita sul rispetto di ben determinati valori che, come d’incanto,
si sono vaporizzati nell’egoistico benessere e materializzati nella
“Grande Casa Comune Europea”. In altre parole, l’Europa sta
dimostrando di non essere in grado di esportare quei principi
culturali, solidali e umanitari che costituiscono un peculiare
fattore critico di successo che le grandi potenze del pianeta non
sono nemmeno in grado di immaginare, se non, come dice la parola
stessa, manifestando nel peggiore dei modi la superiorità della loro
forza. Che cosa è, quindi, cambiato nella cultura europea di oggi
rispetto a quella dei primi Anni Novanta?
Author: Emanuele COSTA
Published by: Il Nuovo Picchio n° o8/Settembre 2015 con il titolo «Che genere di Europa è stata edificata?»